Giustizia

Abuso di carcerazione

Abuso di carcerazione

Silvio Scaglia deve essere scarcerato. Subito, oggi stesso. E’ un problema di diritto e di civiltà, non un modo per diminuire le sue responsabilità (se ci sono) o per solidarizzare con chi non ho il piacere di conoscere. Il tema posto dall’inchiesta penale romana è d’ordine generale, mettendo a nudo il fallimento dei controlli societari e di mercato, ma rischia anche di portare discredito alla giustizia. Che proprio non ne ha bisogno, come non ne ha di prestarsi a giochi di potere.

La legge è chiarissima: si può privare un cittadino della libertà solo se c’è il concreto rischio che inquini le prove, che reiteri il reato o che scappi all’estero. Non ricorre nessuno di questi motivi. Il reato presupposto è associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio e alla frode fiscale, la cui base sarebbero delle false fatturazioni, risalenti al periodo 2003-2006. Ebbene, tali reati, se sono stati commessi, si dimostrano documentalmente. Se la procura ha le prove porti gli indagati a giudizio, se non le ha non può chiederle agli interessati. Inoltre, alcuni di loro hanno ricevuto da molto tempo l’avviso di garanzia, sicché, se avessero voluto e potuto inquinare, lo avrebbero già fatto. Non c’è il pericolo della reiterazione, intanto perché non si tratta di reati violenti e con spargimento di sangue, e, poi, perché nessuno degli indagati ricopre più gli incarichi societari per cui è accusato. Infine, Scaglia è rientrato dall’estero, pertanto è difficile sostenere che desideri fuggirvi. Va liberato, ripeto. Subito.

Premesso questo, e premesso che vale la presunzione d’innocenza, per Scaglia come per tutti, sullo sfondo di quest’inchiesta vedo la tragedia. Confesso di non riuscire a capacitarmi dell’idea che i vertici di società quotate in Borsa abbiano agito di concerto con la ‘ndrangheta. Mentre, non conoscendo i dettagli dell’inchiesta, trovo abbastanza ragionevole, per quanto deprecabile, che siano state messe in atto operazioni destinate a eludere il fisco e gonfiare i bilanci. Stabilire se sia stato superato il confine del reato è compito dei tribunali (non delle procure), ma che ciò dimostri l’insufficienza dei normali anticorpi, societari e di mercato, è poco, ma sicuro.

Il guaio è che se l’ipotesi d’accusa si dimostrerà infondata, avremo assistito all’ennesima inchiesta che brucia ricchezza e massacra dei cittadini, nella più totale irresponsabilità di chi la gestisce. Se, invece, le accuse saranno provate, allora sarà vero che il nostro è un mercato di banditi, con sceriffi corrotti o incapaci. Una prospettiva terrificante.

Il guasto ulteriore è che, come al solito, rischiamo di regolare i conti con le inchieste e non con le sentenze. Non solo la procura ha chiesto di commissariare le società, ma sono numerosi i manager messi di forza in panchina, quando non espulsi dallo stadio. Anche questa è una distorsione, niente affatto virtuosa. Come non è virtuoso il comportamento che stanno tenendo le società interessate: Fastweb e Telecom Italia. A me starebbe benissimo se dicessero: respingiamo tutte le accuse e rivendichiamo la correttezza del nostro operato. Si va al processo e si vede chi ha ragione. Ma se si comincia dicendo che il tal presidente (Riccardo Ruggero) non era operativo, quando, in realtà, era l’amministratore delegato di quella Telecom Italia che possiede al 100% la Sparkle e che, quindi, consolida quel bilancio nel proprio, se si sostiene, ed è il caso di Fastweb, che è colpa di “dipendenti infedeli”, allora vuol dire che i vertici di oggi sentono puzza di marcio e quelli di allora erano incapaci o conniventi. Nel qual caso, però, mica stanno amministrando il proprio orticello, ma una società per azioni quotata, vale a dire un bene collettivo, che appartiene a tutti gli azionisti, quindi: o si dimettono o si tutelavo, avviando azioni di responsabilità.

Abbiamo, invece, imboccato di gran carriera la direzione opposta: arresti al posto dei processi; divulgazione di carte d’accusa al posto delle condanne; accuse galattiche al posto d’imputazioni precise e dimostrabili; società che si dicono disponibili a collaborare con la procura al posto di vertici aziendali che utilizzano la legge per salvaguardare quel che amministrano; il tutto in una giostra d’allusioni e colpi di gomito, a cominciare dal fatto che la procura capitolina potrebbe colpire laddove quella meneghina s’è fatta in quattro per proteggere. Una strada simile non porta in nessun bel posto, ma ci consegna nella pozza maleodorante delle cose italiane: senza giustizia, senza trasparenza, senza una seria divisione dei torti e delle ragioni. Solo con la contabilità dei morti e dei sopravvissuti, ove i secondi sono migliori dei primi solo per doti relazionali. Un riassunto, insomma, di ciò che rende indigeribile e tribale il nostro mercato.

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