Giustizia

Adesso, chi paga?

Adesso, chi paga?

Adesso, chi paga? Non la giustizia, dove, anzi, chi sbaglia fa carriera. Non la politica, che tace vigliaccamente, popolata da quelli che tacciono per occultare le proprie colpe e da quelli che non parlano perché non sanno di che parlare. Non un giornalismo riprovevole, che il bavaglio ce l’ha nel cervello e si guarda bene dal dare le notizie. E la notizia è questa: dopo quattordici anni, dopo essere stato isolato e vilipeso, Carmelo Canale, carabiniere, l’uomo che Paolo Borsellino chiamava “fratello”, è stato assolto in via definitiva: non s’è venduto alla mafia. Ripeto la domanda: adesso, chi paga?
La sorte di Canale fu segnata dalla vicinanza all’uomo cui la procura di Palermo aveva impedito d’indagare sulla mafia, all’uomo che ricevette il permesso di interrogare dei pentiti, dalla viva e diretta voce del procuratore capo, la mattina stessa in cui saltò in aria, assieme alla scorta, a quel Paolo Borsellino che tutti furono pronti a piangere, così come erano stati pronti a fermare, e fu segnata, la sorte di Canale, dal suicidio di suo cognato, il maresciallo Antonio Lombardo, che, nel 1995, si sparò dopo che Leoluca Orlando Cascio lo aveva accusato, ospite di Michele Santoro, in diretta televisiva e senza diritto di replica, d’essere al servizio dei mafiosi. Canale disse: non è un suicidio. E, dicendolo, si suicidò. Da quel momento il carabiniere che indagava contro la mafia passò ad essere accusato di mafia e, suprema raffinatezza, gli imputarono di avere usato i soldi dei disonorati per curare, prima, e seppellire, poi, la figlia, Antonella. A lei e a Borsellino è andato il pensiero di Canale, oramai definitivamente innocente, in un giorno che lui stesso ha definito di “malinconica felicità”.
Non fermatevi qui, però. Perché qualcuno deve pagare, e non per la tortura inflitta ad un servitore dello Stato, ma per il depistaggio ai danni dell’Italia. Canale, difatti, è stato assolto in primo grado, assolto in secondo e, giunti in cassazione, il procuratore generale ha chiesto di respingere il ricorso presentato dalla procura di Palermo. La Corte è andata oltre, considerandolo inammissibile. Somari, nel merito e nella procedura. Già, ma il pubblico ministero che sostenne l’accusa contro questo carabiniere oggi è assessore regionale. Amministra la cosa pubblica, veste i panni del moralizzatore, elargisce lezioni di correttezza. Mentre il politico che accusò Lombardo, esponendo la sua famiglia a un pericolo rispetto a quale quell’uomo preferì la morte propria, che accusò Giovanni Falcone di tenere nei cassetti le indagini, anch’egli complice di mafiosi e amici dei mafiosi, ancora calca la scena, esponente del partito giustizialista e manettaro, sempre pronto a dire che l’opera dei magistrati deve avere la precedenza. Ora la giustizia ha fatto il suo corso, Canale è definitivamente innocente, ma questa gente è passata a parlar d’altro, senza che nessuno li rimproveri, senza che si sbatta loro in faccia quel che hanno combinato. Un Paese, il nostro, senza anticorpi, senza memoria, quindi senza dignità. Mi prendo i miei rischi, allora, e mentre i copisti di procura scioperano per non essere imbavagliati (tanto stanno zitti per vocazione), urlo la rabbia di un’Italia che vuole essere diversa.
Badate bene, la cosa riguarda solo marginalmente Carmelo Canale. Carne da cannone, spappolata da uno Stato fellone e ingiusto. Ma la vicenda collettiva è assai più vasta e ci riguarda tutti. Siamo ancora qui a discutere dell’ipotesi che ci sia stata una trattativa fra lo Stato e la mafia, pendiamo dalla bocca di disonorati e figli di disonorati, che rateizzano le “rivelazioni” e risiedono stabilmente sulle prime pagine, ai servitori dello Stato, però, abbiamo messo un sasso in bocca, allo stesso Canale abbiamo impedito di parlare, per quattordici anni, e se anche avesse parlato nessuno lo sarebbe stato ad ascoltare, come non è stata pubblicata la notizia della sua assoluzione, e tutto questo capita perché si fa fede a chi ha lavorato per gli assassini, non a chi ha lavorato per lo Stato e per Borsellino. Vi è chiaro, questo? Che altro dovete leggere e sapere per urlare tutti contro il mare di minchionerie nel quale siamo stati annegati?
Nessuno replicherà, come nessuno ha interesse a sapere che fine fece l’inchiesta mafia appalti, che dopo l’eliminazione di Paolo Borsellino la procura di Palermo provvide a smembrare, sezionare, spappolare e neutralizzare. Nessuno replica perché l’unica cosa che sanno fare è mettere il bavaglio, coprendo le poche voci eterodosse con il silenzio e l’accantonamento. Queste storie di mafia, e, soprattutto, queste storiacce di falsa antimafia, sono il sigillo di un’Italia deviata. Che, però, state bene attenti, non si nasconde nell’ombra, non trama nel segreto, bensì s’esibisce davanti ai vostri occhi, incucchiaiandovi la bocca con presunte “verità” che, però, sono il contrario delle verità precedenti. La verità al servizio della fazione e del disegno politico, una suggestione orwelliana che, da noi, è divenuta realtà. Fino a sconfinare nel comico, così che chi ci raccontò la credibilità di Scarantino, e su quella basò sentenze definitive relative alla morte di Borsellino, oggi sdottoreggia sulla credibilità di Spatuzza, che dimostra quanto il primo sia un buffone. Ma la coerenza e la serietà non sono specialità praticate da procuratori e giornalisti battaglieri, in eterna guerra contro il diritto e l’onestà.
Nessuno pagherà, allora, per la semplice ragione che abbiamo già pagato tutti. Il prezzo più alto: la rinuncia alla giustizia e la falsificazione della nostra storia. L’assoluzione di Carmelo Canale è solo una piccola consolazione, che a lui è costata una vita.

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