Giustizia

Ancora una condanna

Ancora una condanna

Leggendo i commenti alla sentenza di secondo grado, che ancora condanna Scattone e Ferraro per omicidio colposo, si nota il ricorrere del concetto d’insoddisfazione.

Si sarebbe insoddisfatti perché, in ogni modo, rimangono troppi dubbi e misteri, perché la verità non emerge in modo limpido. Credo che sia un sentimento sbagliato. Chi, nelle aule dei tribunali, va cercando la verità mostra di avere nella testa una certa confusione: non è una materia che si tratta in quei luoghi. I tribunali si limitano (o, almeno, dovrebbero), assai più laicamente, a mettere insieme gli elementi che servano a dimostrare una tesi o l’altra, un’accusa od una difesa.

Da questo punto di vista la sentenza di cui si tratta è terribile. Se Scattone e Ferraro fossero colpevoli, noi non sapremmo su quali elementi fondare una tale convinzione, visto che quelli emersi dal processo sono a dir poco contraddittori. E, del resto, non è senza significato che, per la seconda volta, la procura della Repubblica ha accusato i due di un reato di cui, per la seconda volta, il tribunale li ha ritenuti innocenti. Ciò che è terribile, ciò che colpisce è che ci sembra di assistere ad un processo in cui si scarta a priori l’ipotesi più probabile: non siamo in grado di sapere cosa successe, quel giorno, all’Università; non siamo in grado di sapere chi ha sparato e perché. Forse si ritiene che tale ipotesi sia anch’essa insoddisfacente, ma a noi pare lo sia assai meno di una verità processuale che si fonda sul poco e sul torbido. I tribunali non son fatti per cercare la verità, i processi non possono accontentarsi di una verità purché sia. Anche perché, in questo modo, la vittima non ottiene giustizia, ma una beffa.

Condividi questo articolo