Giustizia

Attualità infame

Attualità infame

Per comprendere quel che succede nella giustizia italiana basterebbe solo contare quante volte le riflessioni partono dalla manzoniana Storia della colonna infame. E’ incredibile, ma anche solo il ribadire la, indubbia, attualità di quello scritto dice tutto su come viene vissuta e sentita la giustizia nel nostro paese.

Roberto Racinaro, professore di filosofia, già autore de La giustizia virtuosa, già protagonista, a sue spese, di una storia di malagiustizia, fa di più: chiama a testimoni del disastro Manzoni e suo nonno, Beccaria, ma anche Verri, Filangeri, Pagano, la cultura dell’Italia illuminata che stenterebbe a credere reale l’Italia d’oggi (Colonne infami, presente e passato della questione giustizia – Marsilio). Un lavoro, quello di Racinaro, davvero prezioso ed istruttivo.

La linea di continuità è quella dell’invertito rapporto fra delitto e castigo, fra imputato e giudice. La colonna infame è la storia di supposti colpevoli in cerca di un delitto, è la rappresentazione del processo che richiede, per svolgersi, l’esistenza di un crimine. Come scrisse F. Mario Pagano: “Immaginati delitti produssero veri misfatti”. E duecento anni fa, nell’Italia illuminista che pagava con la vita il rifiuto del silenzio e dell’abiura, la riflessione partiva da quei mali e si snodava su sentieri che, malauguratamente, appartengono ancora all’attualità: terzietà del giudice; parità fra accusa e difesa; certezza della pena ma certezza, anche, di non subire persecuzioni; valore intangibile della presunzione d’innocenza.

E duecento anni fa Manzoni ricostruiva un fatto di duecento anni prima per descrivere l’orrore di una magistratura lanciata all’inseguimento di quello che oggi chiameremmo un “teorema”, interessata solo a dare sostanza a quel che non ne aveva, a trovare protagonisti di misfatti la cui esistenza non era neanche provata, impegnata in una azione investigativa che violava tutte le regole, che ignorava ogni principio di imparzialità e di equanimità. Una palla che rimbalza di duecent’anni in duecent’anni, finendo con il cadere sempre nello stesso posto. Incredibile.

Il “processo senza reato” sembra avere regole immutabili, “perché gli inquirenti che ?indagano’ il Piazza, il Morra e gli altri, chiudono gli occhi sulle incoerenze, sulle contraddizioni contenute nei racconti dei soggetti torturati: a loro serve soprattutto avere dei ?colpevoli’, quali che siano: il non trovarli significa una sconfitta, per di più molto sgradita al popolo. Ma non si fanno scrupolo di lasciare chiaramente intendere ai soggetti interrogati il tipo di risposta che si attendono. Se alle ?rivelazioni’ già fatte si potesse aggiungere qualche cosa di più -per esempio l’implicare una ?persona grande’ (cioè, un personaggio noto, magari di alto lignaggio)- ebbene: tanto meglio”. Certo, quattrocento anni fa non esisteva la possibilità di filmare gli interrogatori. Se fosse esistito, invece, il Consiglio Superiore della Magistratura c’è da scommettere che non avrebbe trovato nulla d’irregolare.

Racinaro ripercorre le pagine di quell’Italia civile e riflette amaramente sulla distanza temporale e la vicinanza tematica, e non meno amara è la lettura di pagine a noi temporalmente più vicine, come quelle di Calamandrei. Certo, l’indipendenza della magistratura era un principio sacro che presiedeva alla neutralità del suo potere. Un potere che prendeva legittimità dalle leggi, non avendo bisogno di inseguire né il consenso popolare né quello governativo. Ma che ne è di quel principio se ne vengono meno i presupposti? Non si può ignorare il fatto che negli ultimi anni “la magistratura ha ritenuto di farsi interprete di un’esigenza di rinnovamento e di ri-legittimazione del sistema politico diffusa nell’opinione pubblica e ha stabilito un rapporto diretto con quest’ultima, cercandovi -in essa più che nella legge- la legittimazione del proprio operato”.

E la stessa non conflittualità fra i diritti di libertà del singolo e l’autorità dello stato, così come l’aveva vista Calamandrei, salta, viene meno se la magistratura cessa di essere un potere neutro e diviene un potere che cerca consensi nell’opinione pubblica. Su quale altare, dunque, s’immolano i diritti degli innocenti?

Su queste profonde ferite viene poi sparso il sale di una magistratura che si getta nel compito di decapitare una classe politica, sentendosi investita apoditticamente della difesa del bene contro il male; di un’alleanza fra magistratura e mass media che fa saltare ogni forma di rispetto dei diritti del singolo, che elimina ed azzera ogni valore della presunzione d’innocenza; di una forzatura della legge, il cui scrupoloso rispetto è l’unica, dicasi l’unica, legittimazione democratica della magistratura, alla ricerca di un fine che si autogiustifica. Sale a palate, che rende vistose e brucianti le ferite di cui l’Italia civile è cosparsa. Ferite che, in duecento anni, non sono riuscite a cicatrizzarsi, rendendo dolenti i martiri di ieri e le vittime di oggi.

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