Giustizia

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Benvenuti in Mafialand. Si potrà dirlo a quanti, fra capi di Stato e di governo, prenderanno parte al G7 del prossimo giugno. Si svolgerà in Puglia, passeranno da Bari, magari il sindaco andrà a salutarli. Si ritroveranno in apposita masseria, per avere diretta contezza delle tradizioni locali. Chissà a quali penseranno, magari ignari che noi siciliani avevamo i diritti esclusivi. Chissà cosa penseranno del sindaco che, per affermare di non essere mafioso, annuncia di volere rinunciare alla scorta che pareva fosse destinata a difenderlo dalla mafia. Magari qualcuno di loro, incuriosito, avrà letto che il governo sferra l’attacco a Bari perché il sindaco è di sinistra e che la sinistra difende il sindaco per la medesima ragione. Ma immagino il divertito stupore se anche uno solo di loro chiederà di avere spiegazioni su come sia possibile sospettare di mafia chi non è manco indagato per mafia.

Perché è quella la ragione per cui Bari conquista il baricentro del giustizialismo senza giustizia. Un cocktail che è stato già trangugiato altrove. Occorre sapere, difatti, che per una legge che origina dal 1991 – più volte rimaneggiata e incattivita, fino alla versione varata nel 2000 da una maggioranza di centrosinistra (quelli che ora ne godono gli effetti) – organi eletti come il Consiglio comunale, la giunta e il sindaco possono essere mandati a casa e commissariati senza che siano stati ritenuti responsabili di alcun reato. Si procede con una decisione del Consiglio dei ministri (che è sempre un organo politico, quale che sia il colore di quanti lo compongono), su proposta del ministro degli Interni e con decreto del Presidente della Repubblica, il quale si limita a controllare la regolarità dei passaggi, non l’assennatezza della scelta. E si procede ove si ravvisino «forme di condizionamento (…) tali da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni», in tal senso valutandosi «collegamenti diretti o indiretti» con brutta gente (articolo 143 Testo unico degli enti locali).

Con una prosa simile tutto è possibile. Difatti è capitato che siano stati commissariati quanti poi saranno assolti in sede penale, sicché trovandoci nella grottesca condizione di aver cacciato in quanto succubi dei mafiosi degli eletti che non erano mafiosi e manco succubi. Ed è un peccato che i mafiosi veri difettino di senso dell’umorismo. Tale pastrocchio nasce dall’idea che si possa prevenire il male, non essendo capaci di punirlo. Vero è che prevenire è meglio che curare, ma se per prevenire l’unghia incarnita amputi il piede sarà il caso di farsi curare la testa.

Questi poveri politici sono dei perseguitati? Sì, dalla loro incapacità. Se anziché ragionare di diritto si pretende di vestire i panni dei moralizzatori, prima o dopo si finisce moralizzati, generando montagne d’immoralità. La colpa del legislatore è declamare senza comprendere le conseguenze. La colpa di chi scrive e commenta è che se qualcuno osserva che si tratta di castronerie gli si dà del mafioso, ritenendo uggioso studiare.

E non basta: se si accetta che questo o quel consigliere, questo o quel gruppo, questo parlamentare o quel che diavolo fa passi da dritta a manca, gironzoli per le sponde, ritorni a dritta prima di ripassare a manca, il problema non è stabilire quale sia la sua natura profonda ma chiedere a chi lo candida e accoglie a quale superficiale brama di potere abbia intestato la propria condotta.

La dequalificazione del legislatore e il declassamento del commentatore hanno generato norme manifesto che sono la manifesta incapacità di produrre leggi univoche e secche. Dopo di che, a lubrificare la pressa sotto cui spiaccicare il diritto e la vita pubblica, concorre la viltà che si crede furba e che porta a invocare la presunzione d’innocenza soltanto quando la toga ti è entrata in casa, festeggiando invece la colpevolezza sicura quando entra in casa altrui.

Davide Giacalone, La Ragione 22 marzo 2024

www.laragione.eu

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