Giustizia

Carlotto, l’Alligatore

Carlotto, l'Alligatore

I libri sono così preziosi che si riesce a trarne insegnamento ancora prima di averli aperti. Capita, difatti, che mi segnalino un libro : leggilo, è bello, lo ha scritto Massimo Carlotto, quello del caso Carlotto. Quale, caso Carlotto? Quello che finì in galera per terrorismo, e poi fu graziato dal Presidente della Repubblica. Ecco, quindi, il primo insegnamento.

Anche Carlotto da per scontato che tutti conoscano il “caso Carlotto”, invece noi umani deglutiamo e digeriamo qualsiasi cosa, e la memoria collettiva ci difetta. Da quando ho aggiornato la mia domando in giro, e di questo Carlotto quasi nessuno ricorda niente. L’ingiustizia, quindi, rimane marchiata a fuoco sulla carne di chi la subisce, ma scivola via dall’operosa ed ammirevole quotidianità degli altri. Carlotto, del resto, che fu protagonista di una vicenda giudiziaria allucinante, non è mai stato detenuto per terrorismo, bensì per omicidio. Era un militante di Lotta Continua, ma questo non entrò nei capi d’accusa ufficiali.

La confusione è comprensibile e scusata. In galera per faccende tangenti al terrorismo ci è finito Marco Buratti, l’Alligatore. I libri, talora, deludono. Quelli dell’Alligatore no. L’Alligatore, Marco Buratti, è l’alter ego di Carlotto. E’ stato in galera per anni, fa l’investigatore privato senza licenza, era un cantante blues, ma la cella gli ha tolto la voce. Il primo libro (“La verità dell’Alligatire”, edizioni e/o) è del 1995, e, guarda un po’ il caso, parla di un povero disgraziato che viene ingiustamente accusato di avere ucciso a coltellate una donna, e condannato. Tale quale Carlotto.

Le pagine del libro accendono i riflettori sul mondo che l’Alligatore si porterà sempre dietro, un mondo fatto di marginali e di sconfitti, ma anche di personaggi antistorici, come quel Beniamino Rossini, criminale milanese con il senso dell’onore. Le storie sono ben costruite, il ritmo c’è, il blues pure (così come degli ottimi suggerimenti sulla musica da ascoltare). Insomma, una rivelazione. E con il tempo lo scrittore noir cresce, acquista sostanza, prende sempre più le distanze da se stesso. Nascono così “Il mistero di mangiabarche”, del 1997, che inizia portando il lettore al centro della storia, senza preliminari, senza neanche un saluto; e “Nessuna cortesia all’uscita”, di quest’anno, che sarà pure un racconto frutto della fantasia, ma chiarisce più cose di tante inchieste sulla mafia del Brenta. Il problema di Carlotto, adesso, è che aspettiamo il quarto.

L’Alligatore bordeggia sempre i mali della giustizia italiana, ed a forza di girarci attorno gli è scappato il ritratto perfetto: un avvocato. L’Alligatore sa cos’è la mala giustizia, non ama, quindi, gli avvocati: né quelli che fanno i gradassi, e ti rifilano la galera; né quelli che strisciano in procura, che magari te la evitano, ma ti sporcano per sempre. L’avvocato-vittima del “Mistero di mangiabarche” spegne un sigaro e dice : “Per vent’anni, nelle mie arringhe, avevo ricordato ai giudici che noi italiani eravamo un popolo in libertà provvisoria: il processo inquisitorio, la cultura del sospetto e la totale assenza di una cultura investigativa non garantivano nessun innocente dal pericolo di essere sbattuto in galera …. Poi è capitato a me e non ci volevo credere”. In Italia tanti cadono nell’errore di questo avvocato. Non ci cadono quelli che non vogliono sapere nulla di come va la giustizia, e quelli che, per consuetudine, non sanno mai quel che dicono.

Se un libro non è figlio unico di scrittore sterile, nelle primissime pagine si trova una rubrichetta intitolata: dello stesso autore. Scopriamo così che Carlotto ha scritto altri due libri: “Il fuggiasco”, del 1994, e “Le Irregolari”, del 1998. In essi non c’è traccia dell’Alligatore e, quel che è ancora più notevole, cambia lo stile. Spiegazione: l’Alligatore guarda alla tragedia dell’ingiustizia standosene seduto con le cuffie alle orecchie e bevendo un Calvados; Carlotto, invece, in quell’orrore ci affonda. Situazioni diverse, persone diverse, stili diversi.

“Il fuggiasco” è il classico libro autoterapeutico. Metto nero su bianco la mia schifosissima storia, forse perché m’illudo che a qualcuno interessi, e comunque perché così, un giorno, non mi sveglierò con il dubbio di essermela sognata. Il libro è consigliato alla gente per bene, a quella che dice che, prima o poi, la giustizia trionfa, tutto si aggiusta, si deve avere fiducia, non si deve mentire, i magistrati fanno il loro dovere. Non sai mai se gli auguri di fare la fine dell’avvocato di cui sopra, così imparano. O se, forse, è meglio che nessuno faccia quella fine, così proviamo tutti a vivere meglio. Via di mezzo, per la brava gente: leggere libri autoterapeutici come questo (fra l’altro è l’unico che reca in appendice la vera storia del “caso Carlotto”).

“Le irregolari” sarebbero le madri e le nonne di Plaza de Mayo, quelle che, in Argentina, non hanno perso la speranza di ridare identità e giustizia ai desaparecidos. Il libro è stato scritto perché gli esseri umani hanno la sgradevole tendenza a parlare di se stessi, considerandosi un soggetto interessante. Ma chi ha subito una violazione forte della propria umanità si rende conto che non ha il diritto di parlarne troppo, capisce che deve parlare anche degli altri, cerca altrove la possibilità di lottare contro il mostro dell’ingiustizia. E se ha occhi per guardare, trova quel che cerca.

Troppi morti, troppe torture, il Carlotto che sta in Argentina non sopporta più quei racconti, si accorge di confonderli e dimenticarli (com’è successo al “caso Carlotto”, del resto), prova rabbia e paura che tutto questo divenga solo un dovere del ricordo rituale. Noi esseri umani televisivi assistiamo quotidianamente allo spettacolo del dolore. Possiamo permettercelo, senza impazzire, solo perché non proviamo dolore. Cade la lacrimuccia, forse, per il bimbo kosovaro, così come cade sulle gote della sciampista che legge il fotoromanzo. Ma poi passa il fidanzato e tutto si dimentica, poi c’è la pubblicità e ricordiamo di profumarci. Dalle pagine del libro, invece, il dolore schizza sulla faccia e sporca i vestiti. Fa male alla nostra salute, e questo è un bene.

Attenti, però, a non cadere nel banale. A non fumettizzare il dolore umiliandolo in una divisone del mondo che contempla solo buoni e cattivi. El Chino, ci aiuta. El Chino è un cileno. Lo chiamano così perhé ha i tratti somatici orientaleggianti, e anche perché militava in un gruppo comunista di osservanza maoista. El Chino è il monumento all’irregolarità di una generazione che non poteva che rompersi in cocci. El Chino lottava contro la dittatura cilena, inneggiando ad un’altra grande dittatura, tutt’altro che priva di repressione, tortura e morte. L’umana sorte, come si vede, è un po’ più complessa di quel che cerchiamo di credere.

“Nel mio Paese la verità dei tribunali è troppo spesso ambigua, e scontenta le coscienze. Talora le indigna”. Lo dice l’Alligatore? Carlotto all’epoca del processo? un perseguitato sudamericano? Potrebbe, ciascuno. Ecco svelato il segreto dell’unità dell’opera di Carlotto.

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