Antonio Di Pietro vuole essere ascoltato dai magistrati di Perugia, così spiega e si discolpa. Antonio Di Pietro, evidentemente, pensa d’essere soggetto ad una giustizia diversa da quella che lo vide protagonista, sicché, a beneficio suo e dei tanti giornalisti che lo osannarono, rimanendone traumatizzati a vita (al punto, ancora oggi, da confondere la libertà con il copismo da velinari), riassumo le tappe del cammino che gli toccherebbe fare, in una discesa nell’inferno privato e nel pozzo nero di malagiustizia e giustizialismo.
1. Tanto per cominciare, ai magistrati inquirenti non si accede per richiesta. Ci furono indagati, all’epoca del pool milanese, che si tolsero la vita, nel mentre aspettavano di potere “chiarire”. I magistrati alla Di Pietro se ne fregano del desiderio di spiegare e raccontare, ti convocano con un mandato di cattura e ti fanno parlare da prigioniero.
2. Un mandato di cattura non significa necessariamente il gabbio, ma solo che si devono dare le risposte giuste. Ci furono indagati che chiedevano di chiarire, che venivano ricevuti dopo la notifica della cattura, eseguita all’ora pattuita, che dicevano le coste stabilite e uscivano dalla stessa porta da cui erano entrati. Dovevano essere imprenditori, meglio se editori di giornali, e dovevano aver fornito nomi di politici. Per chi, invece, volesse spiegare d’essere innocente, di non entrarci nulla e d’essere stato calunniato dalle accuse di altri indagati (vale a dire quel che oggi sostiene Di Pietro), si apriva l’entusiasmante e non prevista esperienza della detenzione. Ti andava bene se, nel frattempo, il magistrato non partiva per le vacanze, come capitò a Gabriele Cagliari, che per questo si suicidò.
3. Avendo concordato cattura e interrogatorio, si doveva sottostare a regole teatrali, per la gioia degli sguatteri giornalisti. Mettiamo, per esempio, che si tratti dell’odierno caso Di Pietro, il quale, finalmente, giunge in procura e incontra se stesso, per sentirsi domandare: è vero o no che lei già ebbe, a Milano, la disponibilità di un appartamento ottenuto grazie ad amicizie, e messo a disposizione di suo figlio? E’ vero, risponderebbe il dichiarante, ma non era un reato e non c’entra? E qui comincerebbero le urla: c’entra, c’entra, qui si tratta di consuetudini ambientali, quindi risponda (chiede urlando) è vero? Sì. E l’altro, vociando come un matto: ammette, oh, ammette. E gli sguatteri, origlianti dietro la porta, cominciano a compitare: ha ammesso, canta.
4. Già che ci siamo: è vero o no che ebbe in prestito dei soldi e li restituì in contanti, in una scatola di scarpe, all’evidente scopo di non lasciare tracce? E il poverello, giunto per chiarire: che c’entra? C’entra, c’entra, così capiamo con chi abbiamo a che fare. Segue frase dialettale.
5. Si prosegue. E’ vero o no che fu lei, da ministro dei lavori pubblici, a dare un nuovo ed importante incarico a un Tizio che ora è in galera e che è in combutta con quelli che affermano di averle messo a disposizione ben due appartamenti? Sì, risponde, ma è una cosa diversa, con altre ragioni. Ma quale diversa e quali ragioni, m’avesse preso per scemo, comincerebbe a urlare il Di Pietro togato, a questo mondo non si fa nulla per niente, no si dà senz’avere (traduco liberamente). Oooooh, non ci provare a farmi fesso.
6. L’ipotesi d’accusa, a quel punto, è chiaramente formulata: il qui presente, in cambio della promessa di un beneficio futuro, essendo già aduso a baratti irregolari, approfittando del potere di cui disponeva, agevolava il disegno criminoso e ne diveniva partecipe. Quindi, arriviamo al dunque: ‘sti ccase le hai avute o no? No, dice il secondo Di Pietro, quello che quando subì un trattamento appena meno sbavante del solito, in un’aula di tribunale, piagnucolò: sono umano anch’io. Non le ho avute, quelle case.
7. Ma è vero o no che in una ci abita la tesoriera del tuo partito, che sarebbe meglio dire la tesoriera dell’associazione che prende i soldi del finanziamento pubblico, di cui è socia, l’inquilina, assieme a te e tua moglie? E’ vero, ma che c’entra? C’entra, c’entra. Ora basta, va bene così. Chiuso. Grazie, posso andare? Ma dove? Dove vai? In galera, vai. Ma ho detto tutto. Sì, e noi qui che ci stiamo a fare? Facciamo accertamenti, perché c’è un altro che dice l’esatto contrario, che collabora, quindi dorme a casa, mentre tu non collabori, quindi ti ospitiamo noi.
Il verbale dell’interrogatorio, naturalmente, troverà spazio per giorni, nel bel mondo dell’informazione disinformante. Da quelle pagine saranno copiati i libracci di storia. Da quei lanci d’agenzia continuerà l’eco d’internet, nei secoli. Il pubblico ministero farà carriera, diventerà parlamentare e si permetterà di eccepire sulla moralità e cultura (roba da matti, lui che non conosce l’italiano) dei suoi indagati d’un tempo. Un parlamentare che farà eco al suo procuratore capo d’un tempo, suggerendo a chi ha “scheletri nell’armadio” di non candidarsi neppure, salvo trasformare in ossario la vita di cittadini per bene. E quando saranno assolti, la cosa non importerà a nessuno. A proposito: ho trovato su due soli quotidiani, nelle pagine interne, in piccolo, la notizia dell’assoluzione di Pacini Battaglia e dei familiari di Lorenzo Necci. 420 mila pagine d’inchiesta, accuse di riciclaggio e altre nefandezze, una quindicina d’anni di procedimento, alla fine è il pubblico ministero a chiedere l’assoluzione. Pagine interne, testimonianza imperitura della cattiva coscienza collettiva.
Ho una buona notizia, per Antonio Di Pietro: non esistono solo quelli come lui, esistiamo anche noi, cultori del diritto e dei diritti. Sicché, adesso, noi non crediamo alle accuse e crediamo a lui, sulla parola. Questo ci suggerisce la cultura e la coscienza. Gli auguriamo, di cuore, di potere liberarsi al più presto da accuse sulle quali i suoi avversari politici speculano. Ci aguriamo che sia pulito, perché l’immondo giustizialismo di cui egli è espressione vogliamo batterlo con le armi della democrazia, non vederlo cancellare dal mostro che si autofagocita (questa gliela spiego dopo).