Più che giustamente il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, a proposito della custodia cautelare, ricorda che: “i detenuti non sono messi in prigione dal governo, ma dai giudici”. Il che esclude, quindi, che al governo si chieda conto di questo o quel caso di arresti sulla mera base dei sospetti e in assenza di giudizi. Siccome, però, della custodia cautelare si abusa largamente, come il ministro ha ripetutamente ribadito, il problema si sposta dall’operato della magistratura a quello del legislatore, ovvero alle regole che presiedono a quel necessario e odioso istituto. A volere essere precisi, inoltre, non solo il governo non arresta le persone, ma neanche fa le leggi, se non in via eccezionale. Ma la vita costituzionale s’è imbastardita e il Parlamento è divenuto più un ratificatore inerte che un legislatore solerte. Dunque il governo si propone di riformare. E noi che plaudiamo siam qui a temere che sia del tutto inutile, proprio per quello che ricorda il ministro: sono i giudici ad arrestare e la lettera della legge diventa una cartolina di saluti, se non si è responsabili di come la si applica.
Il manzoniano Azzeccagarbugli può ben imbrogliare Renzo non (solo) perché quello è ignorante, ma perché neanche si applica a capire quel che gli succede. Quindi non si scappi davanti all’articolo 274 del Codice di procedura penale, giacché può capirlo chiunque, se solo non si rifiuta di capire. E dopo averlo capito avrà chiaro che il problema non è in quel testo.
Una volta esclusa l’adozione di altre misure cautelari -come divieto di espatrio, obbligo di dimora o altro – si può togliere la libertà a un cittadino che è da considerarsi innocente, solo ove ricorra una di tre condizioni. Forse lo sanno quasi tutti: inquinamento delle prove; fuga; reiterazione (che lo si faccia nuovamente). Quel che moltissimi non sanno è che non basta – o non dovrebbe bastare- manco per niente.
Il pericolo relativo alla “acquisizione o genuinità della prova” deve riferirsi a “specifiche e inderogabili esigenze (…) fondate su circostanze di fatto espressamente indicate (…) e non possono essere individuate nel rifiuto (…) di rendere dichiarazioni”. Quindi non basta affatto dire che c’è un pericolo ed è escluso che all’indagato possa rimproverarsi il suo non collaborare. Figurarsi il non capire l’accusa. E questo è il primo comma.
Nel secondo si consente di arrestare chi si è già dato alla fuga “o sussiste concreto e attuale pericolo” che lo faccia. Occhio: “Le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato” per cui si indaga. Quindi non basta affatto che si dica: potrebbe fuggire.
E siamo al terzo, sulla reiterazione, per cui si possono carcerare indagati (costituzionalmente innocenti) ove sussista “il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede”. In quest’ultimo caso devono essere reati gravi, ma non basta, perché: “Le situazioni di concreto e attuale pericolo (…) non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede”. Ovvero: non basta che sia grave quello per cui sono indagato, occorre che il pericolo sia reale e imminente, dimostrato. Fine.
Altrimenti chiunque, finché vivente, può essere arrestato. Se queste regole fossero rispettate le custodie cautelari, come la legge vuole, sarebbero necessarie eccezioni. Ma se chi le chiede e chi le autorizza non risponde mai di quel che fa, a che serve scrivere la legge in modo più chiaro visto che è chiara? Senza separazione delle carriere fra chi chiede un arresto e chi lo autorizza -hanno lo stesso sindacato ed è pendete una riforma costituzionale- e senza responsabilità tutto resterà per aria. Questa è la responsabilità del legislatore, cui si chiedono risultati, non intenzioni.
Davide Giacalone, La Ragione 14 agosto 2024