Giustizia

Cionti

Cionti

Avevo sostenuto che l’istituto del patteggiamento, nel processo penale, dovrebbe essere utilizzato ben oltre i limiti fin qui fissati, e che, di recente, il Parlamento ha solo leggermente ampliato.

Questo per ragioni di pragmatica efficienza: un reo che patteggia fa risparmiare tempo e denaro allo Stato, e, per questo, può ben essere premiato. Patteggiare non deve, necessariamente, significare non scontare la pena.
Ferdinando Cionti, con il suo intervento di ieri, condivide queste considerazioni, ma mi fa osservare che ampliare il patteggiamento significa allargare, di diritto e non solo, come ora, in via di fatto l’autonomia del pubblico ministero, il quale non risponde a nessuno del suo operato. Cionti ha perfettamente ragione, sebbene l’anomalia rappresentata dai pm italiani, unica nel mondo civile, è grave ed inquinante in ogni caso, e non solo con riferimento al patteggiamento.
Il rimedio sta in una rigidissima separazione delle carriere e nell’introduzione di controlli sull’operato di funzionari pubblici. A ben vedere, però, allargare il patteggiamento può essere utile anche in tal senso.
Mettiamo che l’imputato Tal dei Tali chieda di patteggiare, per il grave reato di cui è accusato, mettiamo offra di scontare una decina d’anni. Mettiamo anche che il pm rifiuti il patteggiamento, ritenendo del tutto insufficiente la pena proposta, avendo controfferto trenta anni che, però, non hanno trovato il consenso dell’interessato. Si va al processo. Ecco, se il pm perde il processo, e quell’imputato, che avrebbe potuto scontare dieci anni senza impegnare la costosa macchina della giustizia, se ne torna a spasso per i viali, mi parrebbero sussistere tutte le condizioni perché quel pm vada a fargli compagnia.
Oggi si prevede di sanzionare il comportamento dei magistrati solo nel caso di dolo o colpa grave. Credo esista anche un interesse pubblico a non rassegnarsi alla presenza degli incapaci.

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