E’ balzato all’onore delle cronache a causa del diverbio, pubblico e velenoso, fra il suo autore, Gerardo D’Ambrosio ed il suo capo d’allora, Francesco Saverio Borrelli, circa l’invio dell’avviso di garanzia a Berlusconi, avviso che finì prima nelle mani del Corriere della Sera e poi in quelle del destinatario, ma questo è l’aspetto meno interessante ed importante de “La giustizia ingiusta” (Rizzoli).
Le tesi ed i ragionamenti del magistrato meritano la massima attenzione sotto due, differenti profili: quello della ricostruzione storica e quello relativo all’impellente necessità di riformare la giustizia.
Gli anni del manipulitismo hanno fin qui trovato spazio in diverse ricostruzioni storiche, quasi tutte di poco spessore e scarseggiante serietà. Più che altro, quei lavori, sono il prolungarsi di un tifo tutto politico e giustizialista, per ciò stesso ignaro d’ogni senso del diritto. Più interessante la memorialistica, quando serena. Non importa, allora, se si condividono (poi dirò) tutti i passaggi di quel che D’Ambrosio ricorda, è importante lo spaccato che egli ci offre, dall’interno della procura milanese. Egli mi aiuta a sostenere quel che ho molte volte scritto: è errato interpretare quei mesi, quel biennio (’92-’94), come frutto di un disegno preordinato (di un complotto, come denunciano quelli che hanno un vocabolario limitato), così com’è un errore fermarsi sui singoli fatti e perdere la visione d’insieme. S’innescò, allora, una reazione a catena, che portò ad un’esplosione resa possibile tanto dall’estrema diffusione dell’illegalità nel finanziamento dei partiti politici, quanto dall’uso della detenzione cautelare come strumento d’indagine, ma che, ed è questo il punto, non si spiega esaurientemente né con l’una, né con l’altro. Su quella reazione a catena s’innestarono poi altre iniziative, la cui natura politica è testimoniata da numerosi atti e fatti, ma in un quadro dove l’azione giudiziaria aveva già perso la sua centralità.
D’Ambrosio ripercorre quei frangenti, racconta la “normalità” degli indirizzi e delle misure adottate dalla procura, e toglie argomenti a quanti contano di poter sostenere che quei magistrati furono eterodiretti. Insomma, non ho ragione alcuna per non credere alla buona fede di D’Ambrosio, ed è un fatto che dell’essere strumento nelle mani altrui egli non s’accorse. Non ne ebbe sentore alcuno. Proprio per questo è estremamente interessante la sua ricostruzione di come, quando, in che condizioni quel furore indagatorio si spense: dalle televisioni (Fininvest in testa) in eterno collegamento, dai giornali che si sperticano in lodi, dalle folle plaudenti, si passa poi ai riflettori spenti, a qualche ridestatosi spirito critico, alla delusione. In questo D’Ambrosio dovrebbe sentir puzza di bruciato, da questo dovrebbe partire per andare oltre, nel suo ragionare. Fu l’interazione fra azione penale e univoco (ripeto, univoco) sostegno del sistema dell’informazione, a creare la miscela esplosiva.
A che si doveva tanta univocità di “libere” voci? Chi si accontenta di minestrine insipide e riscaldate risponde: la si doveva all’indignazione popolare, al fatto che la “gente” non ne poteva più di quei partiti politici. Già, peccato, però, che quegli stessi partiti avevano appena finito di raccogliere (1992) la maggioranza dei voti degli italiani, in liberissime e democraticissime elezioni, e che quando due anni dopo i loro simboli erano stati cancellati dalle schede elettorali, con una traumaticità democraticamente non argomentabile, i loro antagonisti di sempre continuarono a perdere le elezioni. C’è qualche cosa, di profondo, che non funziona, in quella spiegazione, che suona solo sulla bocca degli sciocchi. Se si va a guardare, invece, come altrove ho fatto e qui ometto, lo spostamento di ricchezza e di potere che accompagnò e seguì quegli anni, ecco che qualche elemento di maggiore intelligibilità si trova. Questo, però, spiega il contesto (compresa l’uniformità dell’informazione), spiega, o aiuta a comprendere, la reazione a catena, non l’azione della procura milanese, non riducibile, certamente, a braccio giudiziario di un disegno. In questo le memorie di D’Ambrosio sono utili.
La tentazione di soffermarsi su singoli fatti è forte. Resisto e mi concedo un solo esempio. D’Ambrosio ha ragione a mostrarsi indignato per il comportamento di Italo Ghitti: prima gip addetto al pool mani pulite, poi critico sull’uso della carcerazione preventiva. Lo scrissi anch’io, quando l’allora membro del Csm pronunciò delle infelici considerazioni. Però scrissi anche sulla puntata precedente, quella in cui lo stesso Ghitti era interamente succube del pool. D’Ambrosio ha troppa esperienza e troppa sensibilità per non valutare come merita un gip che suggerisce al pm come chiedergli di arrestare una persona. E qui, di certo, la penso diversamente da D’Ambrosio: quell’inchiesta a testata multipla non fu lo strumento di un complotto, ma segnò un momento di sospensione delle regole del diritto. Non essendo stato decretato da alcun organo costituzionalmente preposto, il fatto è gravissimo.
Non meno interessante il secondo profilo, quello delle proposte. Che in buona parte condivido. E’ vero: l’udienza preliminare ha perso le caratteristiche che doveva avere ed è divenuta un primissimo grado di giudizio; i riti alternativi devono essere incentivati, ma non ha senso che il patteggiante non sia un colpevole, né che tutto sia ricorribile; se si adotta un sistema accusatorio si deve poi essere conseguenti, anche in quanto ad obbligo di motivazione ed esecutività delle sentenze. Ed è vero, arcivero, che una giustizia che si muove con i tempi di quella italiana è ingiusta. Ingiusta con gli innocenti, torturati per anni, ma anche con i colpevoli, illusi di un’impunità che si smentisce solo quando molti anni di vita sono trascorsi.
Però è strano che, nel richiamare la coerenza con il modello accusatorio, D’Ambrosio non s’accorga che il primo presupposto è proprio quello della separazione delle carriere. Non delle funzioni, delle carriere. Lui cita molte volte il sistema statunitense, e fa bene, ma lì sarebbe una bestemmia immaginare che il giudice ed il pubblico ministero, non dico siano colleghi, ma frequentino lo stesso circolo del golf. Come fa a non accorgersene?
La risposta è questa: perché gli effetti dell’esplosione provocatasi nel bienno ’92-’94, le sue conseguenze economiche e politiche, il consolidarsi istituzionale e politico della lava post eruzione, sono tutti elementi che inquinano, quando non impediscono, una discussione seria su questi temi. Ci siamo impantanati allo stadio della legittimità, manchiamo, volendo sempre tacere od omettere qualcosa, di una storia condivisa, o, almeno, raccontata, ci siamo persi il prima ed il dopo, la causa e l’effetto. Con il risultato che produciamo una politica che si riduce a giuoco elettorale. E questo è il paradosso: sappiamo di non essere nelle condizioni per varare una riforma condivisa della giustizia, ma sappiamo anche di non avere più tempo, prima del collasso definitivo.