Rieccola, la giustizia ad orologeria: Pierluigi Bersani si candida alla segreteria del Partito Democratico e tempestivo arriva il rinvio a giudizio di Giovanni Consorte, assieme ad altri, per la scalata alla Banca Nazionale del Lavoro. Reati ipotizzati: aggiotaggio, insider trading ed ostacolo all’autorità di vigilanza. La notizia torna utile per ricordare che gli ex vertici dell’Unipol, compagnia assicurativa della Lega delle Cooperative, quindi lo stesso Consorte e Ivano Sacchetti, sono sotto processo anche a Bologna, per i reati che si suppone abbiano commesso nel riacquisto di obbligazioni proprie. I due furono trovati con una montagna di soldi, accumulati all’estero. Che c’entra Bersani? C’entra, perché, conoscendo bene uomini, cose e quattrini si spese a favore sia della scalata bancaria che della totale legittimità dell’agire cooperativo. Con Piero Fassino e Massimo D’Alema, ebbe parole di conforto ed incoraggiamento verso i compagni scalatori.
Consorte e Sacchetti, del resto, sono diventati straricchi grazie alla scalata di Telecom Italia, condotta dalla celebrata “razza padana” dei “capitani coraggiosi”, da cui, successivamente, si fecero scucire decine di milioni. Naturalmente in segreto, naturalmente all’estero. Quella scalata fu coronata da successo grazie anche all’appoggio del governo di allora, presieduto da D’Alema e di cui Bersani era autorevole ministro. C’entra, eccome.
Ho riassunto i fatti perché non è detto che tutti i lettori tengano aggiornato, nella memoria, il bollettino giudiziario. E anche perché il rinvio a giudizio, naturalmente, favorisce il riepilogo ed i ricordi, di certo non agevolando chi pretende di parlare del futuro, sperando di vincere una gara nel presente. Ebbene, trovo che questa sia un’occasione d’inciviltà. Aggiungo una cosa: quattro anni fa Bersani sostenne che era “aberrante” volere condannare il compagno Consorte senza neanche un processo, sconsigliandogli di dimettersi. Bersani ha ragione: è aberrante. Egli, però, converrà con me che la malagiustizia è aberrante con tutti, mica solo con gli amici suoi. In quattro anni, secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, oltre che secondo il buon senso, deve concludersi un processo, mentre da noi, se va bene, si avvia. Andando così le cose, dunque, è normale che la giustizia sia sempre ad orologeria, nel senso che avendo l’orologio scassato allunga per lustri la broda dell’accusa, costringendo i protagonisti, siano essi imputati o loro sodali, a vedere periodicamente riemergere le imputazioni.
Da qui a che arrivi la fine, Bersani farà in tempo ad essere eletto e a guidare la sinistra. Ma di lui si potrà riparlare il giorno dell’apertura del processo, quando parlerà l’accusa (la difesa non fa notizia), alla prima sentenza, quindi al secondo processo e così via. E, ogni volta, sarà lecito porsi la domanda: ma quei soldi, Consorte e Sacchetti, li presero per il partito, quindi anche per Bersani, o li intascarono, fregando il partito, quindi anche Bersani? Governanti di ieri e candidati a governare in futuro, dunque, sono complici o fessi? Un dilemma non esaltante.
Né Bersani né i suoi compagni, però, possono vestire i panni delle vittime. Essi sono, in gran parte, la causa di questo sconcio. Perché, lasciando da parte le possibili responsabilità nel caso specifico, c’è un’enorme responsabilità politica: avere impedito una seria riforma della giustizia, avere alimentato il giustizialismo, avere fatto credere che le accuse siano delle condanne annunciate ed essersi alleati con l’incarnazione di questa barbarie. Sicché, siccome sono ipocriti, oggi diranno: abbiamo fiducia nella giustizia. Mentono, sono lividi. Ma non sanno essere riformatori.