Un autore scrive un libro perché sente il bisogno di raccontare certe cose, esporre certe idee. Il libro, poi, una volta stampato, se ne va in giro e ne racconta delle altre. Succede. Ed è quello che è successo al libro scritto dal Generale Francesco Delfino: “La verità di un generale scomodo”, I.E.T. Edizioni.
Giaguaro uno (il suo nome di battaglia) non me ne vorrà, ma sappia che non sono estraneo a questa esperienza. Delfino, difatti, ha cominciato a scrivere il primo capitolo del libro per potere scrivere il penultimo, dove si affronta il caso del rapimento Soffiantini, per il quale è stato arrestato e condannato in primo grado. Ecco, ad essere sinceri, questa è la parte meno interessante del libro. E’ comprensibile il travaglio dell’autore, così come è evidente l’illogicità di certe accuse su cui si basa la condanna (una persona, un generale dei carabinieri poi, che prende denari illeciti per ottocento milioni non li va a depositare in banca, gente esperta, come un tale magistrato, li tiene nelle scatole delle scarpe o avvolti nel giornale), ma tutto questo è un dramma solo per lui, nel quale il lettore si cala a fatica.
Questo, però, non significa che il libro sia poco interessante, al contrario è interessantissimo. Aggiungo che non si può far finta che il libro non sia mai stato né scritto né pubblicato, oramai c’è e con questo si devono fare i conti.
Delfino, fra i tanti incarichi ricoperti, è stato anche con i carabinieri di Palermo. Arrivato per combattere la mafia lo misero a mettere in ordine i magazzini, mansione alla quale dovette sottrarsi. Fin qui, magari, è storia d’ordinaria burocrazia. Ma Delfino sostiene tre cose: 1. Totò Riina poteva essere arrestato già nel 1989, prima delle stragi di Capaci e via D’Amelio, quando il generale si mise sulle tracce di Balduccio Di Maggio; 2. l’irruzione nella casa di Di Maggio andò male e non si trovò nessuno, ed a seguito di quell’episodio fu trasferito in Piemonte; 3. da qui, essendosi nuovamente imbattuto negli spostamenti di Balduccio Di Maggio, Delfino riuscì ad avere le informazioni che portarono all’arresto di Totò Riina. Aggiunge, il generale, una quarta ed importante cosa: da quell’arresto cominciarono i suoi guai.
Ecco, una storia simile non può passare sotto silenzio. Chi ostacolò l’attività di Delfino a Palermo? Chi lo fece trasferire in Piemonte? Riina godeva d’esplicite protezioni istituzionali? Mica robetta da poco. Perché delle due l’una: o Giaguaro uno è un mitomane; oppure in quel che scrive c’è del vero, ed in questo caso saremmo solo all’inizio di una storia tutta da raccontare.
Delfino, a proposito di altre vicende che vanno dai presunti depistaggi per la strage di piazza della Loggia, a Brescia, alla presunta contiguità con certi rapitori, afferma chiaramente che contro di lui si sono montati degli attacchi giudiziari che vedevano coinvolti (nell’organizzazione dell’accusa) tanto i pubblici ministeri quanto i ROS dei carabinieri. Si tratta di un’ipotesi gravissima, sulla quale deve essere fatta luce.
Delfino, del resto, scrive di avere interessato dei fatti il Consiglio Superiore della Magistratura. Cosa è stato fatto? Se ne è discusso? Chi ha archiviato accuse così gravi, firmate da un generale dei carabinieri?
Non si può chiudere il libro e metterlo da parte, come si trattasse solo di un memoriale scritto da un uomo che si sente ingiustamente imputato. Vi sono molte pagine che chiedono e reclamano una risposta. Perché o ad un cittadino italiano non può essere consentito di gettare così pesanti e documentate ombre sulla giustizia, se tali accuse sono infondate; oppure non può essere consentito che a quel cittadino si chiuda la bocca sommergendolo d’accuse destinate a sgonfiarsi.
Noi, come lettori, siamo grati a Delfino per il libro che ha scritto, vogliamo sperare, però, che sia stato solo un modo per iniziare un discorso ben più lungo e complesso.