Parlando di problemi della giustizia si è sentito ripetere mille volte il riferimento ai sistemi giudiziari di altri paesi.
Uno degli spettri, ad esempio, della magistratura associata italiana sarebbe quello di vedere adottato un modello di tipo francese, ove non solo le carriere degli accusatori e dei giudici sono separate, ma i magistrati del parquet , i pubblici ministeri, dipendono dal ministro della giustizia. Cosa che toglierebbe loro qualsiasi autonomia.
Da tempo la nostra sensazione è che le strutture delineate dalle leggi contano poco quando si muovono imponenti forze che vanno in senso opposto. Quando, insomma, il pendolo politico segna un ribaltamento degli equilibri di potere a poco serve alzare argini irrisori. Ci capita per le mani, adesso, una storia reale che dimostra esattamente questo.
Bernard Tapie è stato ministro della Repubblica francese, sindaco di Marsiglia, esponente socialista molto vicino e molto apprezzato da Fancois Mitterrand, che della Francia è stato lungamente Presidente. Tapie era anche un imprenditore ed aveva comperato una squadra di calcio. Per ragioni che avevano a che fare con la sua attività imprenditoriale ebbe guai con la giustizia, fu condannato e finì in carcere.
Uscito dal carcere ha pubblicato un libro, intitolato “Librement”, per i tipi di Plon. Nel libro sostiene la correttezza del suo agire e denuncia di essere stato vittima di una persecuzione. Tesi, queste, che ha tutto il diritto di sostenere, ma sulle quali noi non entriamo. Il resto, comunque, è non poco significativo.
La prima cosa che colpisce l’imputato Tapie è lo stretto coordinamento fra la magistratura che rappresenta l’accusa ed i giudici che devono emettere il verdetto. Esattamente come nella realtà italiana. E da cosa deriva questa saldatura? Deriva, egli scrive, dal fatto che l’unica cosa che conta è l’annuncio dell’accusa, con essa si colpisce il cittadino e nei suoi confronti si anticipa la condanna. Quel che viene dopo è solo un successivo approssimarsi a quel che si era già stabilito. La magistratura giudicante, del resto, tende ad allinearsi alle tesi dell’accusa per il semplice motivo che il magistrato del parquet è il soggetto più forte : quello noto, quello coraggioso, quello giusto, quello sostenuto dai media e osannato dall’opinione pubblica. Quindi, in barba a tutte le leggi che stabiliscono la assoluta divisione fra i due ruoli, i due magistrati finiscono con il ritrovarsi sulla stessa barca, il che nuoce sia agli interessi dell’imputato che a quelli della giustizia.
Se Tapie avesse vissuto la sua vicenda in Italia non l’avrebbe descritta diversamente. Ma siccome il sistema italiano è diverso da quello francese, l’uguaglianza dei risultati sta a dimostrare che le leggi vengono seppellite da forze preponderanti. Ed oggi, nei nostri paesi, la magistratura, ed in modo particolarissimo quella che gestisce l’accusa, è una forza preponderante.
Il cemento con il quale si consolidano le basi di questo potere viene fornito dal sistema dell’informazione. Ed anche in questo caso le cugine latine si somigliano come due gocce d’acqua. Non a caso, del resto, dobbiamo alle riflessione di un avvocato francese la definizione del meccanismo mediatico-giudiziario; non a caso fu proprio il Presidente Mitterrand a denunciare il fatto che l’onore dei galantuomini veniva lanciato nelle bocche di una muta di cani arrabbiati. E’ il sistema dell’informazione, la cui libertà è a base dei sistemi democratici, a fornire la fanteria per questo ribaltamento delle regole democratiche.
Colpisce la descrizione che Tapie fa del giorno in cui, con le proprie gambe, va a consegnarsi alla prigione : un uomo che si consegna alla galera è costretto a fuggire dalle telecamere e dai giornalisti. Quand’è che i giornalisti cominceranno a capire che con questo comportamento stanno piantando i pali ai quali sarà impiccata la libertà di espressione del pensiero?
Può darsi che le opinioni politiche del politico Tapie fossero piuttosto irrilevanti nel dibattito italiano, ma quelle del Tapie incarcerato meritano la massima attenzione. E’ la politica, sostiene, a non essere più interessante, è la contrapposizione fra destra e sinistra, il progetto di un mondo diverso, la progettualità del cambiamento, che hanno perso d’interesse. Lo spettacolo chiede ben altro, chiede animazioni, colori forti e forti sensazioni. Allora il politico merita l’attenzione dei media solo quando diviene scandaloso, e per ciò stesso protagonista (negativo) interessante. Non si può, difatti, credere che i politici di una determinata epoca siano particolarmente più riprovevoli dei loro predecessori o dei loro successori, è una tesi che non ha senso. Quel che è successo è che è cambiata la rappresentazione del loro operato. Attenzione, però, perché gli scandali esistono realmente, epperò se la vita politica viene rappresentata come scandalosa a rimetterci è la democrazia.
La stampa scritta è stata eclissata dal potere della parola e dell’immagine, ed allora, per ritrovare un ruolo “ha scoperto una nuova funzione, quella di ausiliaria della giustizia, che essa adempie con uno zelo talmente marcato che non si sa più, fra il giudice ed il giornalista, chi sia l’ausiliario dell’altro”.
Tanto basta per rispondere a chi ci rimprovera di avere contratto una fissazione maniacale sulle questioni della giustizia. Tanto basta a comprendere che il fenomeno del quale parliamo ha dimensioni ben più vaste di quelle nazionali, e che attiene ad una malattia della democrazia, dei nostri sistemi di diritto, delle nostre garanzie collettive, che deve essere curata, ed in fretta. Lo stato giudiziario nel quale viviamo non è solo il frutto di una coesione corporativa e di una aggressività reale del potere giudiziario, è il frutto anche di uno sbilanciamento dei poteri, e di un modo patologico di vivere la vita pubblica, di rappresentarla a noi stessi e di immaginarne il futuro.
Non comprendere questo è grave. Così come giustificare questa o quella forzatura delle leggi con il motto (assai poco machiavellico, quindi assai poco morale) secondo cui il fine giustifica i mezzi. Qui, alla fine, ci troveremo con la democrazia a pezzi, e sarà difficile rimettere assieme i cocci.