Cosa pensereste se, dopo avere spedito una e-mail, vi dicessero che siete obbligati a stamparla, metterla in una busta, affrancarla e spedirla al medesimo destinatario? Suppongo riterreste di star parlando con un pazzo. Nella pubblica amministrazione abbondano. Non parlo delle persone, naturalmente, ma delle procedure. Ho fra le mani il “Protocollo d’utilizzo del P.C.T.” (processo civile telematico), redatto dal tribunale di Varese. A pagina nove leggo: “Per esigenze di esame e studio degli atti processuali, data l’insufficiente dotazione tecnologica assegnata a questo Ufficio (maiuscolo nel testo, n.d.r.) giudiziario, si rende indispensabile che i difensori, laddove effettuino il deposito telematico (facoltativo o obbligatorio che sia), consegnino in Cancelleria (sempre maiuscolo nel testo, n.d.r.), entro i due giorni successivi alla scadenza dell’ultimo termine assegnato per il deposito delle memorie, una copia cartacea delle stesse ad uso esclusivo del giudice”. Così la digitalizzazione non potrà funzionare mai.
La ragione di tale regressione, come si legge, sta nella mancanza di “dotazione tecnologica”. Dovremmo credere, quindi, che in quell’ufficio, o quei giudici, non abbiano un computer, un tablet o uno smartphone. Non ci credo, neanche se lo vedo. Primo, perché computer sono stati distribuiti per ogni dove, nonché assegnati ai singoli magistrati. Secondo, perché in quella prosa burocratica deve leggersi: non ci hanno dato un computer apposito per leggere gli atti depositati. Usate quello che avete. Usate il vostro. In campo fiscale la trasmissione telematica delle dichiarazioni dei redditi ha funzionato perché si è stabilito che dopo una certa data non si accettavano più quelle cartacee. I commercialisti potevano anche rifiutarsi di usare il computer, ma per ciò stesso smettevano di svolgere la professione. Restava loro solo il titolo, buono per affiggerlo al muro e giocarci con le freccette. Siccome i commercialisti sono professionisti privati hanno l’obbligo di dotarsi degli strumenti necessari. L’idea che i magistrati, essendo dipendenti pubblici, possano non utilizzare quello che già hanno è inaccettabile.
Non succede solo a Varese e non succede solo nella giustizia (mi segnalano che la Commissione Triburaria Provinciale di Reggio Emilia invia inviti telefonici ad andare a ritirare atti cartacei, giacché in via telematica riesce a spedire solo mezza pagina!). Ho perso la patente: ho fatto denuncia (ovviamente cartacea) e chiesto il duplicato, ma siccome avevo la patente digitale non si può duplicarla, mentre se avessi avuto quella che si apre a fisarmonica sì. Il mondo alla rovescia, perché dovrebbe essere più facile duplicare quel che è digitale. Vabbe’, siccome mi serve, datemene un’altra. Mi dicono: deve fare la visita oculistica. Ma la patente l’ho persa, mica me l’hanno ritirata perché non ci vedo! Vado alla visita, ovviamente pagando, e manco mi fanno leggere nel tabellone: lei ha gli occhiali, quindi certifico che ha l’obbligo di portarli. Grazie, c’erano anche nella fotografia!
Questo, però, non è un racconto di Gogol, è la follia analogica di un’amministrazione illogica. Un digitale nell’occhio. Al ministero della Giustizia esiste un’intera direzione, la Dgsia, che presiede alla digitalizzazione: sarebbe saggio redigesse un regolamento valido per tutti, anche per evitare il fiorire barocco di ordinanze contraddittorie circa il disbrigo di pratiche banali, procedendo a farla pagare a quegli uffici che se ne discostano. E se proprio non riescono a fargliela pagare, almeno non paghino il premio di produttività.
Pubblicato da Libero