Gianfranco Fini dovrebbe dimettersi. Sarebbe utile per sé stesso e per quanti hanno creduto alle sue parole, ma sarebbe inutile all’etica collettiva, perché, ancora una volta, si dimostrerebbe che cade il perdente, non l’ingiusto. O, per dirlo in modo diverso, che l’etica vale solo per chi non ha il potere di resistere agli assalti e continuare a fare il comodo proprio. In generale, non solo il politico indagato, ma anche solo scoperto in condotte poco commendevoli dovrebbe dimettersi. Solo che questa regola presuppone l’esistenza della giustizia, che da noi manca. Vedo, in giro, tonnellate d’incoerenza e vagonate di doppiopesismo, sicché vale la pena tornare a fissare i paletti del diritto e del garantismo.
Sono stato il primo a scrivere che l’appartamento di Montecarlo non è un bene pubblico. Non ho atteso gli otto, imbarazzati e imbarazzanti, punti dell’autodifesa finiana (e, un consiglio ai suoi amici: non dite che la questione è chiarita, perché esiste un limite anche al ridicolo). Quell’appartanento, però ha rilievo pubblico, per due ragioni. La prima è che apparteneva al patrimonio di un partito, il che, nei sistemi sani (da noi manca una legge specifica), presuppone che non venga gestito come un affare privato. La seconda è che se anche fosse un affare privato comunque sarebbe dubbio e produttore d’illecito, perché il proponente la vendita (ovvero l’aspirante cognato, secondo quanto dice lo stesso Fini) è anche l’inquilino, e siccome l’acquirente è una società off shore, per giunta ad un prezzo decisamente basso, derivano due conseguenze: a. un vantaggio patrimoniale per anonimi, che è ragionevole sospettare possano essere riconducibili all’abitante, oltre che al venditore; b. l’esportazione di valuta con frode fiscale, visto che pagando l’affitto si costituisce un capitale all’estero.
Messe così le cose, non si tratta di aspettare che la magistratura trovi il reato, e possibilmente il reo, ma di prendere atto che un governante, la terza carica dello Stato, un politico di lungo corso, un interprete del moralismo, s’è prestato ad un’operazione che, nel migliore e più generoso dei casi, è opaca. Un’operazione che, se messa in atto da un normale cittadino, lo porta ad essere spellato dal fisco. Quindi, deve dimettersi.
Fini non è riuscito nemmeno a dire che non c’entra niente, ma, almeno, ha detto di considerarsi innocente. E questo porta alla questione più generale: se il sospettato dovesse sempre dimettersi ne deriverebbe che la magistratura sceglierebbe, al posto degli elettori, governanti e cariche istituzionali. Vero, ma Fini dovrebbe dirlo prima di tutto a se stesso, visto che due settimane fa sosteneva il contrario. Il fatto è che io, garantista totale, perché totalmente convinto delle ragioni del diritto, ritengo avesse ragione: l’indagato si dimette, si difende, fa valere la propria innocenza e torna sulla scena. Così vuole il galantomismo e la pubblica decenza. Salvo che, in Italia, non esiste la giustizia e le indagini sono speso condotte da gente che aspira a diventare famosa e prendere il posto di quelli che indaga, magari fondando un partito dopo avere distrutto gli altri partiti. Tale stortura autorizza alla tesi opposta: mai dimettersi e continuare la battaglia, altrimenti salta lo Stato di diritto e la divisione dei poteri.
Non occorre essere giuristi per comprendere il cortocircuito. Ma da questo pantano non si esce se non risolvendo il problema vero, quello della giustizia. Ed è proprio questo il motivo per cui chiunque abbia a cuore la buona sorte delle istituzioni dovrebbe scartare ogni ipotesi di governo “istituzionale”. Perché incapace di affrontare il problema vero, incapace di azioni nette, retto con lo sputo del far diga alla maggioranza dei voti.
Il momento in cui ci si avvicinò maggiormente a quel che poteva essere una soluzione coincise con l’elaborazione della “bozza Boato”, all’interno della commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Bozza, è bene non dimenticarlo, disconosciuta dalla sinistra e non afferrata dalla destra. Da allora in poi s’è proceduto con provvedimenti parziali e talora inutili, figli della miopia istituzionale e di una politica appecoronata e intimidita dal potere togato. Questa situazione genera una miscela micidiale, fatta di scandali continui, uno in successione all’altro, accompagnati da uno scandalismo ipocrita e retti dall’inesistenza delle sentenze. I verdetti, difatti, o non arrivano mai o arrivano fuori tempo massimo, quando il colpevole fa pernacchie alla corte e l’innocente è già stato civilmente assassinato. Ecco, allora, che in un quadro come questo il politico, indagato o sospettato, la cui condotta è forse criminale o più semplicemente riprovevole, resistendo e non dimettendosi può ben appartenere a una delle due categoria: quella nobile, che non si piega ad un potere divenuto illegittimo, o quella ignobile, che fa marameo all’etica pubblica e punta a sfangarla.
Vedremo il Paese affondare nella palata, se non saremo capaci, riformando la giustizia e facendola essere realmente tale, di distinguere gli uni dagli altri.