Giustizia

Disonore

Disonore

Giustizia non sarà fatta. Comunque si concluda questa storia, relativa all’insabbiamento dell’inchiesta “Mafia-appalti”, la giustizia ne esce irrimediabilmente sfregiata e oltraggiata. E mettiamo le mani doppiamente avanti: a. la presunzione d’innocenza vale per tutti e sempre, quindi anche per gli odierni indagati; b. la loro futura condanna non racconterebbe affatto tutta la storia, la loro futura assoluzione non cancellerebbe affatto questa storia incresciosa. Ci manca solo che dopo avere ammazzato la giustizia si accetti anche di stenderci sopra una lapide. Quale che sia la monca verità che ci si scriverà.

Non si tratta di inseguire i fantasmi, ma di non rassegnarsi al falso. Non servono le supposizioni, bastano le certezze. È cosa certa che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono isolati all’interno della magistratura e della Procura della Repubblica di Palermo, prima d’essere ammazzati. È cosa certa che credevano nell’importanza del lavoro investigativo svolto dal reparto operativo speciale (Ros) dei Carabinieri, poi denominato “Mafia-appalti”. È cosa certa che, dopo l’uccisione di Falcone (a proposito: perché non divulgare per intero quel che ha detto Matteo Messina Denaro, che chiese a chi lo interrogava se veramente erano convinti che Falcone fosse stato eliminato per vendetta?) fu Borsellino a chiedere di continuare quelle indagini, come è sicuro che gli fu negato, salvo dargliene il permesso poche ore prima che ammazzassero pure lui. È sicuro che l’intera indagine fu seppellita subito dopo la morte di Borsellino ed è certo che chi aveva lavorato a quell’indagine ha passato gli anni successivi a difendersi – sempre assolto – dall’accusa di avere favorito la mafia (non solo il generale Mori, nessuno dimentichi quel che è capitato al carabiniere Carmelo Canale).

Le fantasie non servono a niente: contano i fatti e, pertanto, quel che pesa in modo inesorabile e insopportabile è il lungo e diffuso silenzio che ha provato a cancellare i fatti. Silenzio non solo investigativo – quindi del mondo della giustizia – ma anche politico e giornalistico. Queste cose le ho scritte e riscritte, dette e ridette, mettendo in fila date e fatti, ma a nessuno gliene fregava niente. Sono stato portato in tribunale da diversi magistrati (perdenti), ma nessuno ha voluto eccepire alcunché quando ricordavamo che se da una qualche parte la mafia, i disonorati e la disonorata società sono stati favoriti, quella è la Procura di Palermo. Così disonorando lo Stato. Ora, dopo che l’avvocato Fabio Trizzino (bravo!) ne ha parlato alla Commissione parlamentare antimafia – anch’essa assente nei secoli – sono partiti gli avvisi di garanzia.

Da quelli sono stati raggiunti uomini che hanno passato una vita nel mondo della giustizia, fino a occuparne i più alti livelli. Se fossero colpevoli vorrebbe dire che la lunghissima omissione ha reso possibile che uffici decisivi finissero nelle mani di favoreggiatori della mafia. Se fossero innocenti – come auguro loro, augurandolo a chiunque – vorrebbe dire che, ancora una volta, servitori dello Stato vengono trascinati ingiustamente nel fango. Ma né l’una né l’altra ipotesi concludono alcunché o assolvono i decenni in cui si è voluto nascondere l’evidente e ci si è rifiutati di guardare quel che era certo. Scegliendo anzi di alimentare depistaggi la cui assurdità avrebbe dovuto quanto meno indurre alla prudenza, prima di abboccare (come al favoloso figlio di Ciancimino).

E nessuno pensi che individuare una responsabilità penale e personale cancelli le enormi responsabilità collettive. Sono quelle che hanno accompagnato un crescente e inesorabile impoverimento, anche umano e culturale, della giustizia. Non sono possibili degenerazioni correntizie e corporative se non accompagnate da una omogenea condotta politica e giornalistica. La retorica dei martiri, adottata dopo la loro morte, è la cattiva coscienza del disonore. Quell’inchiesta e quei fatti restano elementi imprescindibili per capire l’impoverimento nazionale.

Davide Giacalone, La Ragione 2 agosto 2024

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