L’educazione al diritto è cosa buona e giusta. Ma è educativo spiegare che quel che è scritto in una legge può essere opinabile, interpretabile e violabile? Il problema si è posto al tribunale di Reggio Emilia, ove è in corso un processo contro presunti (tenetelo a mente “presunti”) esponenti della ‘ndrangheta. Mentre era in corso un’udienza l’aula del tribunale s’è riempita di ragazzi, colà condotti dalla scuola, in visita. Sono entrati, guidati e accuditi dai loro docenti, e si sono assisi. Uno degli avvocati difensori ha eccepito: non possono stare qui, perché è vero che il processo è pubblico, ma per pubblico devono intendersi cittadini maggiorenni, visto che il secondo comma dell’articolo 471 del codice di procedura penale esclude, espressamente e inequivocabilmente, che dei minorenni stazionino per godersi lo spettacolo. Il presidente del collegio giudicante ha ritenuto di ritirarsi in camera di consiglio (vale a dire che ha voluto valutare con attenzione la questione), ma anziché attenersi alla legge ha ritenuto di consultare gli insegnati. Quindi ha disposto: rimangano, perché assistere è “fondamentale ausilio alla formazione dei giovani alla legalità”.
Si può essere formati alla legalità partendo dalla non applicazione, per non dire violazione, di quanto disposto dalla legge? Lascio in sospeso il quesito, anche se considero ardito rispondere positivamente. Ammettiamo pure che sia educativo. Ma cosa, lo è? Capirei, anche se la legge lo esclude, la scelta di far loro seguire l’intero dibattimento, apprendendo che la verità non è quel che sostiene l’accusa, che occorre ascoltare anche la difesa, che le prove non esistono prima del processo e che, all’opposto, si formano nel corso del dibattimento. A esito del quale, sia che la sentenza sia di condanna o d’assoluzione, gli imputati restano dei presunti innocenti, perché il processo è fatto di tre gradi e nessuno è colpevole se non in base a una sentenza definitiva. Sarebbe educativo, anche nel non prendere sul serio certo giornalismo fatto di copia e incolla, dalle carte dell’accusa. Solo che, per indurre una tale educazione, occorre sospendere l’anno scolastico, anzi no, scusate, gli anni scolastici, quello in corso e i successivi, e portare i pargoli in tribunale per mesi, se non per anni.
Escludo, invece, che abbia una qualsiasi valenza educativa entrare nell’aula mezza giornata, giusto per vedere dei cittadini sul banco degli accusati (imputati). Il processo, se la mettiamo in termini educativi, non è il luogo dove i colpevoli vengono finalmente condannati, ma il procedimento in base al quale, nel confrontarsi fra accusa e difesa, quei cittadini vengono giudicati colpevoli o innocenti. Salvo ricorsi avverso la sentenza stessa. Se, invece, li si porta ad assistere a una sola udienza, magari poi spiegando che si tratta di ‘ndranghetisti finalmente condotti alla sbarra, quel che si realizza è il massimo della possibile diseducazione al diritto.
Che la cosa sia venuta in mente a un collegio dei docenti, più disposti ad accudirli nella gita giudiziaria che al formarli nel diuturno lavoro didattico, si può capire. Non apprezzare, ma capire. Che la cosa sia considerata non solo normale, ma positiva ed apprezzabile, da un giudice, secondo il quale ciò che la legge proibisce può essere ugualmente fatto, in deroga, nel nobile intento di spiegare quanto sia importante il diritto, ovvero la legge, ovvero quello che si sta platealmente violando, è singolare. Per non dire inquietante.
Immagino che qualcuno potrà obiettare: stai difendendo il diritto al diritto di taluni pericolosi delinquenti. Lo metto nel conto. Me ne duole, ma non me ne curo. Speriamo a quei ragazzi sia anche spiegato il capitolo sulla rivolta per il pane, nei “Promessi sposi”, e come Renzo poté passare da difensore della legalità a ricercato. Capita, quando la legalità è un optional, subordinato allo sbracamento verso gli umori popolari. Solitamente barbarici.
Pubblicato da Libero