Subiamo l’Europa come un vincolo, per politica monetaria ed economia. E’ colpa nostra il non viverla come area nella quale far valere e meglio fruttare i nostri interessi. E’ colpa nostra anche il non chiamare il vincolo europeo in materia di giustizia. Non si tratta di ricorrervi per questo o quel procedimento specifico, ma di usarla per abbattere la peggiore giustizia del continente. Si può farlo, ecco come.
La malattia della nostra giustizia non è recente. Dal punto di vista culturale e legislativo ha cause che affondano nei tempi del contrasto al terrorismo e poi alla mafia, con la politica tremula o impedita, che delegò le toghe. Dal punto di vista organizzativo e funzionale ha guasti profondissimi, che da una parte degenerano in corporativismo autoreferenziale, dall’altra negano ai cittadini l’accesso alla giustizia. Mano a mano che il sistema degenerava crescevano i ricorsi di cittadini italiani alla Corte Europea per i diritti dell’Uomo, nata con la Convenzione del 1950. L’articolo 6 della Convenzione stabilisce che si ha diritto al processo in “tempi ragionevoli”. Da noi non lo sono e, quindi, quando gli italiani andavano a Strasburgo per denunciare il loro Stato le condanne fioccavano. A tale attività diedi un piccolo contributo, pubblicando un manuale per i ricorsi (L’Europa dei diritti e delle libertà, 1999). Divennero così tante, le condanne, che il legislatore italiano corse ai ripari. Ma lo fece in modo disonesto e truffaldino: anziché migliorare il funzionamento della giustizia, cosa che gli era impedita sia dall’insipienza politica che dall’opposizione corporativa, stabilì che prima di ricorrere a Strasburgo era istituito un ulteriore grado di giudizio, nel quale chiedere soddisfazione per i propri diritti violati (legge Pinto, 2001). Il risultato fu: a. crollarono i ricorsi pendenti a Strasburgo; b. si moltiplicarono quelli interni, con risarcimenti ridicoli, ma pur sempre onerosi; c. presto le Corte d’appello non furono più in grado di lavorare, sicché divenne irragionevolmente lungo il procedimento contro i procedimenti lunghi; d. da qui ripresero i ricorsi a Strasburgo.
La Corte europea, inoltre, non solo minaccia l’espulsione dell’Italia dal Consiglio d’Europa (non è un organo dell’Unione) per la giustizia, ma anche per le carceri, per il sovraffollamento. Il governo prova a porre rimedio facendo uscire i condannati. Capolavoro inenarrabile, sicché ci restano gli innocenti e se ne vanno un po’ di colpevoli. In questa situazione, propongo di organizzare un ricorso collettivo, per violazione dell’articolo 6 (primo comma) circa l’equità del processo, i suoi tempi e la terzietà del giudice, così come anche del 13, circa la effettività del diritto a ricorrere. Non si tratta di organizzare imputati e condannati (come si faceva prima), ma di far valere un diritto dei cittadini ad avere: giudici veri e non ciarlieri esibizionisti; figure indipendenti e non colleghi dell’accusa; tempi che assicurino regolarità al mercato economico e non si traducano in violazione delle libertà e dignità individuali. Il diritto alla giustizia come diritto collettivo, da farsi valere perché in Italia collettivamente negato.
Lo consente l’articolo 34 della Cedu, che considera fra i possibili ricorrenti anche “gruppi di privati”. Possono essere comitati appositamente nati, associazioni, anche partiti. Non necessariamente si deve trattare di persone che hanno subito procedimenti in violazione dei propri diritti, perché l’articolo 35 (terzo comma, lettera b) prevede esplicitamente che possa essere sollevato il problema collettivo della violazione dei diritti umani. Nel caso italiano, poi, come ricordato, è lo stesso Consiglio d’Europa a sostenere che il problema esiste.
Ricorrere collettivamente significa affermare che si è tutti uguali davanti alla legge, ma tutti ugualmente privati di diritti fondamentali. Perché la giustizia non è affare solo di magistrati, avvocati, imputati e ricorrenti, è affare dal quale dipende la qualità della vita collettiva. Nonché la praticabilità democratica.
Alcune ultime vicende, come la loquacità di non pochi magistrati, dimostrano l’invereconda inadeguatezza della loro preparazione professionale. Direi culturale in generale, visto che spesso biascicano in dialetto e non compitano l’idioma nazionale. Ce ne sono tanti seri, preparati e lavoratori. Se vogliamo premiarli, non lasciandoli ai giudizi burocratico-correntizi del Csm, quindi alle promozioni per amicizia e alla carriera per anzianità, dobbiamo rivoluzionare il sistema. Rendendolo compatibile con quello dei paesi a noi omologhi. Cessando d’essere eccezione tribale. L’autoriforma della corporazione è una presa in giro. La politica si mostra debole, ricattata, confusa e faziosamente tritata. L’iniziativa può partire dal basso, dai cittadini, chiamando a noi l’Europa migliore.
Pubblicato da Libero