Si può combattere un uomo per le sue idee. Isolarlo, costringerlo ad abbandonare il lavoro cui ha dedicato una vita. Si può fare anche di più : si può prendere il magistrato che più e meglio ha lottato contro la mafia e si può lasciare intendere che, in verità, non ha la forza, o il coraggio, o la convenienza di andare fino in fondo.
Poi si può girare la frittata, e dopo avere partecipato ai suoi funerali, essendo egli morto ammazzato dalla mafia, lo si può trasformare in un santino, in un monumento al giusto ed al vero. Naturalmente accusando gli “altri” di averlo isolato, lasciato solo, impedito nel lavoro e, magari, fatto ammazzare.
Questa è la sorte toccata ad un uomo come Giovanni Falcone. Un uomo da ammirare, un uomo giusto.
Si può giungere anche al paradosso. L’esplosione che ne dilaniò le carni, il 23 maggio 1992, come si ricorderà, sbloccò l’elezione del Presidente della Repubblica. Il Parlamento, riunito in seduta congiunta, e con la partecipazione dei rappresentanti delle regioni, da giorni e giorni pestava l’acqua nel mortaio, e gli scrutini si susseguivano in un rinnovato niente di fatto. La morte di Falcone impose di procedere, e fu eletto Oscar Luigi Scalfaro. Ebbene, lo stesso Presidente della Repubblica ha recentemente sostenuto che sarebbe un abominio modificare l’art. 107 della Costituzione, che riguarda l’inamovibilità e la carriera dei magistrati. Giovanni Falcone, invece, riteneva che fosse necessario ed urgente cambiare quell’articolo.
Prima di tornare a parlare del calvario che a Falcone fu imposto, non volendo neanche correre il rischio di interpretare male il suo pensiero, preferiamo riportare le sue parole. Lui, del resto, si era espresso assai chiaramente, anche se i suoi convincimenti, dopo la morte, sono stati sepolti da un mare limaccioso di retorica, a profusione diffuso dagli stessi che lo avevano combattuto.
Le citazioni sono tratte da “Cose di cosa nostra”, il libro che Falcone scrisse, in collaborazione con Marcelle Padovani. Bisognerebbe rileggerlo, anzi, consigliamo caldamente di farlo. Si avrà idea di quanto la realtà sia stata corrotta.
Tanto per cominciare, Falcone credeva nella positività del nuovo Codice, e del processo accusatorio : “Tutto dovrebbe cambiare – scriveva- a seguito della entrata in vigore, nel 1989, del nuovo Codice di procedura penale di tipo accusatorio. Non si potrà ancora a lungo, a mio parere, continuare a punire il vecchio delitto di associazione in quanto tale, ma bisognerà orientarsi verso la ricerca della prova dei reati specifici”. Presso la Procura cui Falcone aveva dedicato i suoi anni migliori, tale lezione è stata dimenticata in fretta. Molto in fretta.
Ci domandiamo : ma i molti giovani che a Palermo, come in altre città d’Italia, periodicamente si mobilitano per sostenere l’attività investigativa dell’attuale gestione, e lo fanno portando in giro l’effigie di Falcone, sanno che la cosa è vagamente contraddittoria? Qualcuno ha mai spiegato loro che Falcone fu cacciato via proprio da quella corrente di pensiero che, oggi, pretende di continuarne il lavoro?
Hanno mai letto quel che Falcone scrisse ? “…. questi crimini eccellenti, su cui finora non si è riusciti a fare interamente luce, hanno alimentato l’idea del ?terzo livello’, intendendosi con ciò che al di sopra di Cosa Nostra esisterebbe una rete, ove si anniderebbero i veri responsabili degli omicidi, una sorte di supercomitato, costituito da uomini politici, da massoni, da banchieri, da alti burocrati dello Stato, da capitani di industria, che impartirebbe ordini alla Cupola. Questa suggestiva ipotesi che vede una struttura come Cosa Nostra agli ordini di un centro direzionale sottratto al suo controllo è del tutto irreale e rivela una profonda ignoranza dei rapporti tra mafia e politica. (…) Non esiste ombra di prova o di indizio che suffraghi l’ipotesi di un vertice segreto che si serve della mafia, trasformata in semplice braccio armato di trame politiche. La realtà è più semplice e più complessa nello stesso tempo. Si fosse trattato di tali personaggi fantomatici, di una Spectre all’italiana, li avremmo già messi fuori combattimento : dopotutto, bastava un James Bond”.
Naturalmente, anche se a noi non pare, Falcone poteva anche sbagliarsi. Quel che è certo, però, è che non si può accendere lumini sotto la sua immagine, dipingerlo come il migliore, il grande ed intelligente combattente, pretendere di raccogliere la sua eredità, e, poi, comportarsi in modo opposto a come lui intendeva la lotta contro la mafia. In questo, come in quel che segue, noi reclamiamo il rispetto del pensiero di quest’uomo.
Così come deve essere rispettato il suo pensiero per quel che riguarda il modo in cui la magistratura deve organizzarsi e deve agire. Ed il suo pensiero era quasi l’opposto di quel che in questi anni sono andati sbandierando tutti i magistrati più famosi, non meno che la loro Associazione Nazionale. Il brano che segue è lungo, ma noi non abbiamo motivo di ridurre in pillole il pensiero di Falcone. E, poi, dopo averlo tanto celebrato, forse vale la pena di conoscerlo.
Ecco cosa pensava della divisione delle carriere, e della necessaria subordinazione del pm ad un organo di centrale coordinamento : “Sono altresì convinto che per conseguire risultati significativi, bisogna elaborare strategie unitarie da affidare a centri decisionali coordinati a livello di polizia e di magistratura. Esiste indubbiamente, di fronte a un pubblico ministero più coordinato, il problema del suo assoggettamento al potere politico. Ma personalmente credo che attraverso questa via si accresca la professionalità del pubblico ministero, il che costituisce la migliore garanzia per il mantenimento dell’indipendenza della magistratura.
Facciamo – diceva- un esempio: se si vuole impostare un’indagine di ampio respiro sui nuovi affari della mafia, onde contrastare l’invasione della cocaina in Europa, o al fine di individuare i canali del riciclaggio (indagine che investe la competenza di più procure della Repubblica) è estremamente difficoltoso farlo perché manca un centro coordinato di decisione e di investigazione e tutto è lasciato allo spontaneismo degli operatori. Immaginiamo uno scenario del genere: la Dea, l’agenzia antidroga americana, informa l’Italia che un carico di droga è in arrivo a Milano a bordo di un Tir che transiterà dal Brennero, attraverserà Bolzano per raggiungere poi, dopo varie tappe, gli Stati Uniti. La Dea ci informa affinché il viaggio non venga interrotto, in modo da poter arrestare all’arrivo i trafficanti americani, lasciando a noi quelli italiani. Tutto bene. Se però il procuratore della Repubblica di Bolzano decide di fermare il Tir nessuno può impedirglielo. E se anche altri procuratori pensano di aver diritto a dire la loro, dove finirà la droga? Si riuscirà a farla imbarcare per gli Stati Uniti? Quante richieste di non sequestrare la droga occorre inoltrare, e a chi? E se un procuratore dice sì e l’altro no? Casi come questi dimostrano la necessità di un ufficio di procura coordinato che decide gli interventi necessari; ciò renderebbe di gran lunga più incisiva l’azione dell’ufficio.
Un coordinamento fortemente centralizzato -specificava- non può essere però affidato a un pubblico ministero totalmente separato dagli altri poteri dello Stato. Bisognerà immaginare la forma di raccordo più adeguata. Un grande giurista ed un grande uomo politico della nostra Costituente, Piero Calamandrei, si era dichiarato favorevole all’istituzione di un procuratore generale della Corte di Cassazione che partecipasse alle sedute del Consiglio dei ministri a titolo consultivo per gli affari riguardanti la giustizia. Altri hanno pensato a direttive impartite al pubblico ministero dal Parlamento. Sia ben chiaro, non auspico affatto un pubblico ministero sotto il controllo dell’esecutivo. L’ufficio di procura deve conservare e rafforzare la propria autonomia e indipendenza, ma deve agire in maniera efficiente ad essere realmente responsabile della sua attività, e a tal fine un intervento legislativo si impone. Una struttura a responsabilità collettiva limiterebbe fra l?altro i rischi di sovraesposizione. L’iperattivismo, l’iperpersonalizzazione oggi molto diffusi tra i funzionari di polizia e i magistrati, rendono vulnerabili e creano dei bersagli ideali per la mafia e per lo Stato. Anche lo Stato, infatti, in certi casi cede alla tentazione di liberarsi del singolo inquirente scomodo rimuovendolo o destinandolo ad altra sede. (…)
Il coordinamento investigativo -continuava- contribuisce inoltre a migliorare la professionalità del pubblico ministero e la sua specializzazione; a realizzare la concentrazione degli sforzi su obiettivi certi e raggiungibili a detrimento di altri, ritenuti secondari; a favorire la elaborazione di strategie di intervento coordinate e centralizzate; a sollecitare la responsabilità (ovviamente, non politica) del pubblico ministero per i risultati del suo intervento.
Col nuovo Codice di procedura penale -notava Falcone-, il pubblico ministero può essere soltanto ?parte’ ed è quindi connaturale al suo ruolo il coordinamento delle indagini e la raccolta degli elementi a sostegno dell’accusa con la collaborazione della polizia giudiziaria. Egli deve quindi adattarsi al suo nuovo ruolo di ?non giudice’ e trasformarsi in una sorta di avvocato della polizia. Sarà difficile, ma bisognerà arrivarci.
La magistratura -lucidamente osservava- ha sempre rivendicato la propria indipendenza, lasciandosi in realtà troppo spesso irretire surrettiziamente dalle lusinghe del potere politico. Sotto la maschera di un’autonomia formale, il potere ci ha fatto dimenticare la mancanza di autonomia reale. Abbiamo sostenuto con passione la tesi del pubblico ministero indipendente dall’esecutivo, accorgendoci troppo tardi che, per un pubblico ministero privo dei mezzi e delle capacità per un’azione incisiva, autonomia e indipendenza effettive sono un miraggio. O un privilegio di casta. Un giovane pubblico ministero di una città del Nord, che cosa può fare di fronte al sequestro del figlio di una ricca famiglia, con tutta la sua indipendenza e autonomia, non avendo alcuna esperienza? Non potrà che affidare interamente a polizia e carabinieri l’avvio e il coordinamento delle indagini.
L’organizzazione attuale degli uffici giudiziari -concludeva-, dunque, non facilita l’opera dei magistrati inquirenti, i quali peraltro sono costretti a misurarsi con un’organizzazione mafiosa da tempo saldamente inserita nelle strutture di potere”.
Questo è quello che Falcone scriveva. E non sfugge il fatto che, nella lettera e nello spirito della sua riflessione è compresa la soppressione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Obbligatorietà che, per lui, non era una forma di tutela dell’indipendenza, ma, semmai, un intralcio all’opera degli inquirenti.
Alla luce di ciò, come si può sostenere che sia eversivo, che sia “contro i magistrati”, chiedere l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale e la separazione delle carriere? O si vuol sostenere che anche Falcone era un eversore, ed un nemico dei magistrati?
Giovanni Falcone pagò a caro prezzo il coraggio delle proprie idee. Dovette difendersi dall’accusa di essere una specie di connivente con la mafia. Gli era ben chiaro cosa si stava muovendo contro di lui, ed avvertì che “si può uccidere anche con la parola”. Al Consiglio Superiore della Magistratura lo mettono sotto inchiesta, lo chiamano a discolparsi, e lui risponde che “non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità. La cultura del sospetto è l’anticamera del Khomeinismo”. Si candida anche per entrare nel CSM, ma i colleghi magistrati, che poco tempo dopo ne piangeranno la scomparsa, lamentando l’incolmabile vuoto che lasciava, non lo votano, e non viene eletto.
Ma Falcone andava avanti, e si batteva, con tutte le sue forze, per la creazione della Superprocura antimafia. In quella struttura avrebbe voluto riversare la sua esperienza, la sua capacità di lotta contro il crimine organizzato, contro quella che era stata chiamata “la piovra”. Ma il 28 ottobre 1991 dovette anche incassare l’amarezza di una lettera aperta contro di lui, e contro la Superprocura, firmata da Antonio Caponnetto, Paolo Borsellino e Giancarlo Caselli. Di queste cose non si parla più, sono state seppellite, con il suo cadavere. Sono divenute tabù. Eppure anche questo fu fatto, a Giovanni Falcone.
Contro il suo disegno di Superprocura, l’Associazione Nazionale Magistrati organizzò anche uno sciopero. Ed alla connessa manifestazione prese la parola, applauditissima, Elena Paciotti, che poi sarebbe divenuta presidente dell’ANM. La stessa Paciotti che, il 19 gennaio 1988, al CSM, sostenne la candidatura di Meli contro quella di Falcone, per la nomina a procuratore capo di Palermo. A quella manifestazione giunse il messaggio di solidarietà di Oscar Luigi Scalfaro, lo stesso che, come abbiamo visto, sarà poi eletto Presidente della Repubblica. Quando ancora rimbombava il boato della bomba che uccise Falcone, la moglie e la scorta.
Rimane la sua grande eredità, il lavoro svolto, l’impegno a favore dello Stato. Rimane la sua avversione al “modo di far politica attraverso il sistema giudiziario”. Rimane il suo monito ai colleghi magistrati, alla loro vita associativa, al loro modo di interpretare la battaglia partitica “con le correnti trasformate in cinghia di trasmissione della lotta politica”.
Siamo sicuri che queste cose, taluni, le sentono raccontare per la prima volta. Altri hanno dimenticato. I più hanno voluto dimenticare. Noi, invece, non vogliamo dimenticare, perché sulla bugia e sull’oblio non si costruisce nulla di buono.