Giustizia

Giustizia & condanna

Giustizia & condanna

Una possente (in)cultura, una vasta (in)politica e un galoppante squadrismo manettaro considerano “giustizia” sinonimo di “condanna”. Se c’è la condanna non solo c’è la giustizia, ma le sentenze non si commentano e si rispettano. Se manca la condanna allora non solo non c’è la giustizia, ma le sentenze si dileggiano e dimostrano quanto gli adorati giudici siano anche dei fetenti complici di un mondo che fa schifo. Lasciamo perdere la coerenza, che è chiedere troppo. Lasciamo perdere il diritto, questo sconosciuto. Ma a tanti sembra far difetto anche la logica elementare. E passi che accada a quelli che del giustizialismo fanno un pasto e un fatto quotidiano, ma il caso del povero Stefano Cucchi dimostra che certa deficienza culturale ha oramai attecchito ovunque. Giornaloni in prima fila.

Una cosa è certa: Cucchi è entrato in carcere vivo e ne è uscito morto. E’ gravissimo, naturalmente. Ma c’è di più: proprio un paio di giorni fa (notizia ignorata dai media) il giudice dell’udienza preliminare ha rinviato a giudizio altri imputati, fra i quali dei medici, per la morte di un detenuto nel carcere di Rebibbia, a Roma, nel 2008. Tralascio la solita osservazione sui tempi incivili, sicché per cose di questo genere le indagini (vale a dire le perizie) si fanno in sei mesi massimo e il processo entro un anno, mentre qui non siamo neanche all’inizio e di anni ne sono già passati cinque. Sta di fatto che queste morti, come la più che documentata condizione di sovraffollamento, nonché le plurime violazioni dei diritti dei detenuti, che io stesso denunciai (senza che nulla sia accaduto), sono questioni la cui responsabilità ricade sul ministro della giustizia. Affrontare i guasti sistemici delle carceri non è compito dei magistrati, ma di chi governa. Discendendo nella scala gerarchica. Il male collettivo si cura nella clinica della politica, non nel mattatoio della giustizia. Purtroppo molti ministri della giustizia, da un pezzo a questa parte, o hanno chinato il capo innanzi alle corporazioni togate o sono finiti al mattatoio. Taluno entrambe le cose.

I casi come quello di Cucchi pongono un problema diverso, relativo alle supposte responsabilità individuali, specifiche e provate, di questo o quel soggetto, sia esso medico o guardia. Circa questo genere di responsabilità non serve a nulla scrivere: guardate come lo hanno conciato, e sono stati assolti. Né serve a nulla mostrare il disappunto e lo strazio dei congiunti. Perché non basta il morto per stabilire che io sono un assassino e da noi non vige la legge islamica, sì che il diritto di punizione e grazia è intestato ai familiari. Con tutto il rispetto per il loro dolore, ma vale sempre, anche per quelli che animano per decenni i comitati “familiari delle vittime”.

E’ scandalosa la sentenza romana che assolve le guardie carcerarie? Che ne so io e che ne sappiamo tutti? Ma qui si grida prima ancora di conoscerne le motivazioni! Il punto non è “guardate cosa hanno fatto a Cucchi”, ma: ci sono le prove per dimostrare la responsabilità penale degli imputati? Il tribunale ha ritenuto di sì per i medici e di no per gli altri. Se questa risposta è considerata inammissibile, allora che li facciamo a fare i processi? Facciamo i sondaggi. Così ci troviamo un bel sistema strafatto e quotidiano. Le sentenze si possono criticare eccome, ma pima vanno almeno lette.

In ogni caso, il “processo”, in Italia, per chi se ne fosse dimenticato, è uno solo e si compone di tre possibili gradi: due di merito e uno di legittimità. Si ferma al primo grado solo se la sentenza soddisfa tutti. Siccome non mi pare il caso (non lo è praticamente mai), siamo solo al primo passo. E, allora, ritengo che il coretto della pretesa ingiustizia, stonato dalle ugole raglianti, ma anche da quelle che s’accreditano come melodiche, finisce con l’avere un valore intimidatorio nei confronti dei giudici futuri: sarete voi giusti, condannando, o immondi e riprovevoli, assolvendo? Il tutto a cura degli stessi che se ti permetti di dire, come scrissi, scrivo e scriverò, che l’Italia è un Paese senza giustizia sono lì pronti a darti come minimo del complice dei criminali, ma meglio ancora del criminale in proprio. Solo per tua fortuna appartenente alla categoria dei (momentaneamente) “non condannati”.

Già, perché gli adepti a tale scuola di pensiero ritengono inesistente l’innocenza, sussistendo solo la disonestà non ancora sentenziata. E qui li capisco, perché conoscendo sé stessi è abbastanza normale che giungano a quella conclusione.

Pubblicato da Libero

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