Il fronte giustizialista è in decomposizione. Più di venti anni di manettarismo forsennato lasciano sul campo una giustizia devastata e qualche caso grottesco. Come quello di Antonio Ingroia, che si propone quale vivente incarnazione della degenerazione togata: da pubblico ministero teneva comizi; da candidato politico emetteva sentenze; da politico sconfitto s’è riciclato a spese della Regione siciliana; da commissario liquidatore, di una scassatissima società regionale, fa 74 assunzioni; e, già che ci si trova, imbarca raccomandati, politici trombati e congiunti di mafiosi. Tanto la Sicilia è già strutturalmente in bancarotta. E tutto, dice lui, in omaggio al rispetto delle regole. Lo avesse fatto un altro avrebbe dovuto spiegarlo da detenuto in custodia cautelare, magari (con un po’ di fortuna) per vedersi assolvere con comodi dieci anni di ritardo.
La società “Sicilia e-servizi”, che già nel nome è un ibrido linguistico insignificante, nasce da una compartecipazione fra Regione e privati. Siccome faceva pena, decisero di liquidarla. Ingroia, nominato commissario, da Rosario Crocetta (quello che quando va a sbattere contro un paracarro sostiene ci sia lo zampino della mafia), per la sua esperienza nel gestire società, ha subito rivelato grandiose capacità manageriali, al punto da definirla “un gioiello” (che sembra il film sulla Parmalat). Efficientissimo, stabilisce che il personale assunto dai privati, merita di passare negli organici pagati dalla Regione. Con ciò aggirando anche il blocco delle assunzioni. Lasciate perdere che fra gli assunti c’è il genero di Stefano Bontade, come anche uno finito in galera per questioni legate all’eolico (altro lucroso affare della mafia), perché sono convinto che anche chi sposa la figlia di un mafioso ha diritto di lavorare, come chi viene arrestato, ma non condannato. Ne sono convinto io. Peccato che Ingroia abbia praticato la teoria e la prassi opposte. Ora dice: li metteremo alla prova. Dopo averli assunti? Avesse visto la scena dall’esterno non avrebbe esitato a parlare di contiguità parassitaria. Essendone protagonista la considererà continuità evolutiva.
Ho passato molto tempo a torcermi le budella, quando sentivo certa gente nominare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, in un continuo sfregio della memoria e dei fatti. Ora la scena è così surreale che, al più, mi torco dalle risate. Ingroia, però, è solo un caso colorito, che s’avvia a essere stinto. (Una sola curiosità: in un dibattito pubblico, a Orvieto, incespicò nel rispondere quando gli chiesi cosa intendeva fare nei confronti di un carabiniere, da lui accusato e poi assolto, che aveva affermato di sentire in quella del pm la voce di Riina, cercò di sgusciare sollecitando la reazione dei presenti, mostrandosi offeso e risentito, siccome, finita la buriana, ripetei la domanda, rispose: lo querelerò. Ecco: lo ha poi fatto?). Ci sono casi più interessanti.
Un detenuto, Totò Riina, in isolamento da 21 anni, non solo parla a tutti i giornali, ma è gettonabile anche in video. Dicono che lanci messaggi e spedisca minacce. Ma chi sono i postini? Quelli che lo hanno in custodia. Il che avviene nel mentre un processo riporta a galla una storia della quale ci occupammo solo in pochi maniaci, ovvero il depistaggio delle indagini sulla morte di Borsellino. Fra l’isolamento che si traduce in ribalta e la verità che smentisce sentenze passate in giudicato c’è un nesso. Oltre al nesso c’è il collasso di quelli che manco per scherzo possono essere sciascianamente definiti “professionisti dell’antimafia”, semmai arditi dell’egolatria.
Luciano Violante, come al solito, ha visto per tempo quel che sarebbe successo, e da combattente politico che usò l’arma giudiziaria ha tempestivamente vestito i panni del saggio che avverte sui pericoli di una magistratura parlante e straparlante. Pioniere del giustizialismo, ne ha visto anticipatamente il naufragio. Saltando con più grazia, astuzia e stile di uno Schettino qualsiasi.
Se questo fronte non fosse spompato e frantumato, se non si fosse sbriciolato in un ammasso ghiaioso di deliri esibizionistici, istinti carrieristici e bisticci egoistici, lo stesso Matteo Renzi non sarebbe uscito intonso dall’incontro con Silvio Berlusconi. Le cose sono andate diversamente perché sono tutti debilitati da uno scontro troppo lungo, dal quale non escono vincitori, ma solo la sconfitta della giustizia.
Pubblicato da Libero