Si alimenta la discussione pubblica con una continua ansia della punizione, salvo poi invocare il condono innanzi a eccessi punitivi. Partiamo dall’ennesimo “scudo”, che nell’oscillare fra pena e perdono anche il vocabolario è divenuto monotono. L’ultimo ha a che vedere con il fisco, che in quanto a condoni è talmente aduso da togliere significato e credibilità alle punizioni.
Il governo ha in animo una complessiva e radicale riforma fiscale, puntando a tre le aliquote per i redditi delle persone fisiche (attualmente sono quattro), salvo moltiplicarle con delle false flat tax che sono differenziali regimi forfettari. Che una maggioranza di centrodestra già votò una legge delega per portare le aliquote a due e poi fece cadere la delega trasformando la rivoluzione nell’eterna restaurazione, neanche se lo ricorda più nessuno. In ogni caso, avendo aperto quel cantiere sarebbe ragionevole portarci ogni altra questione fiscale, rendendo omaggio alla coerenza e all’organicità. Niente da fare, lo “scudo” ha preso forma in un articolo che si trova dentro a un decreto intitolato alle “bollette”. Cosa c’entri lo sa il cielo.
Neanche il tempo di emanarlo e già c’è chi strilla all’“ennesimo condono”. Che fra gli strillanti vi siano i condonatori della volta precedente è gustosa osservazione a cura dell’estrema minoranza che ancora rende omaggio alla memoria. Ma non è un condono. A questo giro è buon senso. Se ho fatto una regolare dichiarazione ma poi non ho versato il dovuto sono sicuramente un evasore fiscale, il che innesca un procedimento penale. Li si definisce anche “evasori per necessità”, senza neanche apprezzare il ridicolo che se la necessità può giustificare l’irregolarità è segno che la regola ha necessità d’essere rivista. No, sono soggetti che hanno usato diversamente i soldi. Colpevoli, quindi. Ma se riconoscono la colpa e si dispongono a pagare (con ammenda) è evidente che il procedimento penale debba fermarsi e poi estinguersi all’estinzione del debito. Altrimenti casca anche l’interesse a saldarlo.
Diversi i casi – che pure si era provato a inserire (e vedrete che qualche emendamento ci riproverà) – di chi la dichiarazione non l’ha proprio presentata o l’ha presentata falsa. Nei quali casi la punizione non può essere estinta dal pagare dopo essere stati beccati: punizione più pagamento, non pagamento al posto della punizione.
Strilli si sentono anche sul fronte del codice appalti, di cui ci siamo già occupati. In questo caso gli strillanti ritengono che si sia semplificato troppo, mentre a me pare non lo si sia fatto abbastanza. Senza le vecchie regole e limiti, dice anche l’autorevole Autorità contro la corruzione, gli appalti andranno a parenti e amici. Come se, vigente e vigilante la citata Autorità, non capiti di già. Qui il punto non è scambiare velocità con onestà, anche perché l’esperienza c’insegna che il malaffare prospera nella lentezza. Servono la (prevista) digitalizzazione, la tracciabilità e leggibilità di tutti gli affidamenti e la corrispondenza fra potere e responsabilità (nel senso sia di “colpa” che di “merito”).
Pensare che il male del mondo si elimini ispezionando le anime è metodo sicuro per far affermare quelle dannate. Il disincentivo a delinquere deriva da regole chiare e punizione assai probabile, in caso di devianza (XVIII secolo, Cesare Beccaria op. cit.). Posto che le regole non devono essere spaventose, è sano che il fisco e la giustizia mettano una certa strizza, talché fregare gli altri induca la paura d’essere fregati. Epperò i due esempi citati hanno una cosa in comune: non ci crede nessuno – né alla regola né alla punizione – se la giustizia è inesistente o in gara con i bradipi. Il nodo è quello e si tende a non occuparsene. Che fine hanno fatto i propositi di Carlo Nordio? Perché se lo si costringe addirittura a difendere l’idea che chi tortura sia punito, è solare che resteremo vittime del supplizio imposto dalla severità orale condita con l’insipienza reale. Il “bau bau” del botolo.
Davide Giacalone, La Ragione 31 marzo 2023
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