Non capita spesso di arrivare all’ultima pagina di un libro e sperare che tutti lo leggano, eppure questa è la sensazione che si prova quando si sono finite le pagine scritte da Aldo Ferrua (Giudice alzatevi! – San Paolo). Pagine di altissimo valore civile, solcate, dall’inizio alla fine, dal dramma di un uomo che subisce una violentissima ingiustizia, ma che continua a credere ed a volere credere nella giustizia.
Capita che ci siano persone insensibili alle ingiustizie, che credono di essere ciniche ed, invece, hanno solo perso il senso del diritto. Capita, anche, che le ingiustizie vengano scagliate contro la giustizia. Ma chi crede nello stato di diritto crede nelle garanzie, crede, quindi, che nulla possa degnamente sostituire la giustizia dei tribunali. Continua a credere nella giustizia e nelle sue garanzie, semmai ricordando che quando la giustizia si separa dalla cultura del diritto e delle garanzie, inseguendo un’idea di verità sostanziale che non ha diritto di cittadinanza nei paesi civili, semplicemente diviene malagiustizia. Vale a dire negazione della giustizia.
Aldo Ferrua è un magistrato, un magistrato che ama il suo lavoro. Ma un magistrato che, adesso, sa una cosa in più: non è possibile comprendere cos’è la giustizia se non la si è vissuta anche dalla parte o nella parte dell’imputato. Questo non significa, l’autore lo dice benissimo, che l’avere vissuto gli scomodi panni dell’accusato (ingiustamente) debba indurre a dubitare della possibilità di giudicare, o impedisca di amministrare una giustizia che, in quanto terrena e fallace, non aspira certo alla perfezione; ma significa che un magistrato ed un giudice non sanno quel che fanno se non hanno esatta percezione di quanto violenta possa essere un’inchiesta, di quanto devastante possa essere il frugare nelle vite altrui. Specie se si tratta d’innocenti. Ed anche quando si tratta di colpevoli, si deve sentire la necessità di articolare la sentenza (ed il procedimento che la precede) in modo che il reo, pur accusando il peso della pena, abbia la sensazione che sia giusta.
Ma il magistrato Ferrua ha anche compreso che la giustizia dei tribunali, pur con tutte le sue imperfezioni, ha una logica ed una meccanica interna che va totalmente a farsi benedire quando alla pena dell’inchiesta si somma la pena, non prevista da nessun codice, sproporzionata e talora dissennata dell’esposizione nella piazza mediatica. Ferrua ha capito che la macchina dell’informazione è non solo spietata e massacrante, non solo imperfetta, ma anche priva di logica apparente. E se nella giustizia dei tribunali è pur sempre previsto che l’imputato si difenda, nell’ingiustizia della gogna ogni difesa è vana e controproducente. “In molti mi invitavano a querelare i giornali, ma anche se ve ne erano i presupposti, non avevo proprio voglia di rimettermi per aule di giustizia in veste di parte lesa: la parte di imputato era già troppa e ne avevo d’avanzo”.
Non querelò, quindi. Se avesse querelato avrebbe scoperto che gli avrebbero dato torto. Perché il tempo avrebbe dimostrato che le accuse subite erano ingiuste, perché il tribunale lo avrebbe un giorno assolto, ma in quel momento era solo un inquisito, e l’inquisito non ha onore difendibile, è solo oggetto, solo carne da macello di cui l’ultimo giornalista può prendersi giuoco. Lo chiamano diritto di cronaca, anche se non ha nulla in comune con la cronaca e nessuna parentela con il diritto.
Abbiamo, noi tutti, corso il rischio che Ferrua non scrivesse queste pagine. Forse non ne avrebbe avuto la voglia, forse gli sarebbe potuto costare troppo il rievocare le accuse e le infamie. Fortunatamente, invece, ha ritenuto di mettersi al lavoro, e spiega il perché: ” La goccia, o il mare, che ha fatto traboccare il bicchiere e mi ha spinto a prendere la penna in mano sono stati essenzialmente i mass media. (…) Nel dicembre del ’96, senza interpellarmi per niente, e anzi facendo finta di non sentire le mie proteste iniziali, avevano scritto e riscritto di me un settimanale e due quotidiani che avevano scoperto all’improvviso che io più di un anno prima ero stato condannato per aver avuto lo sconto sull’acquisto di un’autovettura utilitaria mentre il procedimento penale che riguardava il più famoso Di Pietro (del quale si diceva avesse avuto in gentile concessione due autovetture di lusso) era stato archiviato. Ma, per sostenere meglio la loro tesi ?antidipietro’ della disparità di trattamento (basata sulla considerazione: Ferrua ha commesso un reato lieve e, poveretto, è stato condannato; Di Pietro ne ha commesso di ben più gravi e, fortunato, è stato assolto) quei giornali si erano dimenticati di dire che io il reato invece non lo avevo commesso per niente, tanto che in appello ero stato assolto con la formula più ampia possibile dell’insussistenza del fatto.”
“Allora ho capito – continua Ferrua- che per quello che riguardava me, la mia carriera e la mia privacy, non avevo più niente da perdere; anzi, a questo punto, visto che se ne parlava e che la cosa, mio malgrado, interessava l’opinione pubblica, era giusto e doveroso che se ne parlasse compiutamente, anche perché, forse, avevo qualcosa da dire che poteva avere valore generale e che non era solo la mia piccola questione”. Parole sante.
“Solo ancora due parole su Di Pietro – scrive -, perché il non parlarne, visto che è stato lui il termine di paragone che mi ha tirato in ballo, potrebbe far sembrare d’aver qualcosa da nascondere in proposito. Non sono stato io a suggerire il confronto, e il confronto non mi piace e non l’avrei voluto. Con lui o contro di lui non ho niente. Non l’ho mai conosciuto, né direttamente né indirettamente. Non l’ho mai menzionato in riferimento alla mia vicenda e sono cristianamente contento che sia uscito indenne (processualmente) dalle sue imputazioni. Mi ha fatto anche tanta pena quando, in occasione di un processo a Brescia, l’ho vesto impietosamente riproposto in un cinemontaggio televisivo in cui interrogava se stesso nella duplice veste del baldanzoso e incalzante magistrato che pretende una risposta, e del supplichevole indagato che cerca di non darla, fino ad arrivare a implorare: ?Signor Presidente, io sono un uomo!’. Per me in quelle sei parole c’era tutto il suo dramma, sicché mi sono stupito di non aver trovato quella frase a caratteri cubitali sui giornali. Si vede che non sarei un buon giornalista! Contro di lui, quindi, non ho niente. Ma il paragone con lui non mi va bene e, con tutto il rispetto, non lo voglio.”
“Non so con esattezza ciò che Di Pietro abbia fatto, perché di lui ho letto solo qualcosa sui giornali, ma credo di aver capito che gli era contestato di aver avuto dei favori da amici che gli avevano messo a disposizione grosse auto (in prestito o in regalo, non lo so) e che successivamente questi suoi amici erano risultati imputati di gravi reati. La mia questione, invece, è totalmente diversa. Infatti, anche se posso aver peccato per eccesso di sicurezza in me, ho avuto solo uno sconto su di un’utilitaria da un concessionario che conoscevo da tempo come figlio e nipote di persone oneste, e che si era, sì, rivolto al mio ufficio per presentare una querela contro un suo presunto debitore, ma che, del tutto indipendentemente da ciò, aveva una gran voglia di vendere. Per questo aveva insistito perché acquistassi da lui un’utilitaria, con quello sconto che faceva a quasi tutti, perché gli interessavano molto i miei quattrini: e me li aveva presi con regolare contratto scritto, in cambio di merce scadente, per spenderli altrove, rifiutandosi di restituirmeli, al limite della truffa; come poi spiegherò dettagliatamente. Quindi nessun risentimento verso Di Pietro; ma l’accostamento non lo voglio perché è mal posto e non mi piace.”
Ferrua afferma di non sentirsi né eroe, né vittima. Ci ha rimesso in salute, questo è certo, ma le cose, alla fine (alla fine …) si sono aggiustate. Non ho il piacere di conoscerlo e, quindi, non so se fosse un buon magistrato. So, però, che oggi è migliore.