Il perdono dell’attentatore, da parte del presidente del Consiglio, è cosa, probabilmente, nobile. Ma anche ininfluente, dal punto di vista collettivo. Ho manifestato fastidio, diverse volte, per il modo in cui certi “parenti delle vittime” s’incaponiscono a chiedere che ci sia un colpevole, quasi che il dubbio arrechi offesa alla memoria di chi non c’è più. Il colpevolismo dei congiunti si può esercitare, legittimamente, con l’uso degli strumenti processuali, quali la costituzione di parte civile, mentre assume un sapore sgradevole se sventolato quasi sia una pretesa punitiva alternativa a quella dello Stato, o d’imposizione di un determinato colpevole. Vale per chi accusa, ma vale anche per chi perdona. In questo secondo caso non cade, non recede, né s’affievolisce il dovere punitivo.
Nel diritto islamico sono i parenti delle vittime a potere decidere sulla sorte di un condannato. Trovo che sia un bell’esempio di barbarie, da non imitare. Nel caso specifico, relativo a quel che è successo a piazza Duomo, posto che tutti abbiamo visto, il compito della magistratura è, prima di tutto, stabilire se si tratta di una persona consapevole di quel che fa, o meno. Visto dall’esterno, sulla base di quel che si legge sui giornali, sembra essere un esaltato, ma non un matto. Comunque, se malato di mente lo si dovrà curare, mettendolo laddove non possa arrecare offesa all’incolumità altrui. Se, invece, ci sta con la testa, o con quel che crede essere la testa, allora si dovranno stabilire eventuali connessioni ed istigazioni, ferma restando la sua personale responsabilità penale, che deve dare luogo ad una condanna. Deve.
Il perdono, da parte della vittima, è un fatto privato. Così come il pentimento, per un delinquente, è un fatto intimo. Quel che ai tribunali compete è la valutazione dei comportamenti concreti (quindi anche della collaborazione con la giustizia), alla luce non di quel che il giudice pensa del mondo, ma di quel che è scritto nelle leggi. La giustizia deve essere giusta. Né feroce, né clemente.
Oggi è la vigilia di Natale, festività religiosa che, come accade a battesimi, comunioni e matrimoni, si presta all’esagerazione dei consumi. Sono giorni di bontà impacchettata, talché taluni potranno giudicare stonate queste parole di severità. Mi sembrano appropriate, invece, perché, nel nostro vivere collettivo, s’è smarrito il senso di responsabilità, che ha una forte radice morale, quindi, per i fedeli, anche religiosa. Sembra, penosamente, d’essere circondati da persone non responsabili di quel che fanno, o, almeno, tale è, troppo spesso, il racconto pubblico. Invece è responsabile chi dice che il Tale “deve essere fatto fuori”, anche se poi, vigliacco e non conseguente, prende l’applauso degli accoliti e fugge a nascondersi. Ed è responsabile chi attenta all’incolumità altrui, anche se lo ha fatto dopo avere sentito un sobillatore sostenere che quella è la via giusta. Ciascuno di noi è responsabile della propria condotta di vita, anche quando le nostre scelte non configurano alcun reato, ma si prestano ad essere giudicate negativamente.
Noi stessi, che abbiamo la fortuna ed il privilegio di scrivere e parlare agli altri, dobbiamo sempre porci il problema di cosa accadrebbe se ci prendessero sul serio. E’ un peso che sento, anche perché non si vuol certo rinunciare al diritto ed al dovere di denunciare, anche con toni forti, le cose che non vanno. Subiamo spesso, invece, toni e parole privi di ragionevolezza e responsabilità. E non è un caso che la dissolutezza dei costumi, il decadere dell’etica civile, s’accompagnino al fiorire di linguaggi sguaiati, imprudenti, criminogeni.
Abbiamo tutti bisogno di maggiore serietà e severità. Chi attenta alla sicurezza di uno attacca la libertà di tutti. Deve essere condannato.