Giustizia

Il processo a Mannino

Il processo a Mannino

Calogero Mannino è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa (quando ci liberemo di quest’abominio giuridico?). Tre anni fa era stato assolto, ed il mondo della diaspora democristiana gli si era stretto attorno. Dopo la condanna, a caldo, vige il silenzio codardo. Una scena imbarazzante.Ancor più imbarazzante se condizionata dalle più recenti indagini, che hanno coinvolto altri uomini di quell’area politica.

Il cittadino Mannino, per quel che mi riguarda, e per quel che dovrebbe riguardare ogni persona dabbene, è da considerarsi innocente fino ad una sentenza definitiva, che potrà confermare in modo indiscutibile quest’innocenza, o macchiarla con una condanna non più appellabile. Non mi piace la discussione fra innocentisti e colpevolisti, perché mi piace, invece, il rispetto del diritto e dei diritti. Fin qui calpestati.
Il procedimento contro Mannino iniziò nel febbraio del 1994. Un anno dopo, nel febbraio 1995, un giudice ritenne esistessero urgenti motivi per incarcerarlo (un anno dopo! come se un anno dopo potesse ancora esserci pericolo di fuga o d’inquinamento delle prove). Nove mesi in carcere, tredici agli arresti domiciliari. Nel giugno del 2001 il tribunale assolve Mannino. Nel maggio del 2004, più di dieci anno dopo l’avvio del procedimento, il tribunale di secondo grado lo condanna. E, adesso, si andrà in Cassazione. E’ una storia senza senso, un’offesa alla civiltà del diritto.
Se si tratta di un innocente, lo si sta sottoponendo ad una tortura intollerabile. Se si tratta di un colpevole, si sta esponendo la collettività al rischio che continui la sua carriera criminale. In tutti e due i casi la giustizia è fallimentare. In tutti e due i casi siamo largamente fuori dal rispetto dell’articolo sei della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. In tutti e due i casi l’Italia è già potenzialmente sul banco degli accusati presso la Corte di Strasburgo.
E questo, per così dire, a diritto vigente, ovvero sulla base delle regole in vigore. Ma cerchiamo di ragionare seriamente. Abbiamo adottato il sistema accusatorio, ma non ne abbiamo adottato la logica conseguenza: chi viene assolto non può essere processato una seconda volta. L’assoluzione di primo grado mostra, in modo indiscutibile, che il caso, quanto meno, non è chiaro, non consente una condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Ripetere il processo significa continuare l’impari lotta fra l’accusato e la forza dello Stato, per giunta giungendo a verdetti che saranno inutili o discutibili.
Il presidente del Consiglio, qualche mese fa, aveva trovato la lucidità e la forza per dirlo: anche in Italia gli assolti non devono potere essere riprocessati per lo stesso ipotetico reato. Ma, poi, non è successo più nulla. Attendiamo ancora che si metta seriamente mano alla riforma della giustizia, nel mentre i magistrati proclamano scioperi per difendere i privilegi della loro carriera.
Gli sciocchi leggeranno in queste righe la “difesa di Mannino”; i vigliacchi ammoniranno al silenzio, visto che si parla di roba turpe, di mafia (come non basti, sono anche siciliano); gli insulsi inviteranno ad attendere che la giustizia faccia il suo corso. Solo che la civiltà d’un Paese, e la grandezza (o miseria) della sua classe dirigente, si misura anche dalla capacità di mandare al diavolo queste tre categorie umane e di affrontare il problema per quello che è: la bancarotta della giustizia non può attendere oltre.

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