Giustizia

Imbarazzo costituzionale

Imbarazzo costituzionale

Le sentenze della Corte costituzionale dovrebbero risolvere questioni di diritto, usando il parametro della coerenza con la Costituzione. E’ naturale che da una questione di diritto discenda la soluzione di una concreta vicenda giudiziaria. Nel caso delle intercettazioni telefoniche, che la procura di Palermo aveva raccolto coinvolgendo il presidente della Repubblica, però, sembra che il caso concreto abbia prevalso sull’indicazione generale. O, comunque, le 49 pagine di motivazioni, con cui la Corte spiega perché quelle intercettazioni vanno subito distrutte, lasciano non pochi problemi aperti.

Il numero della sentenza è casuale, ma indicativo: 1/2013. La prima dell’anno appena iniziato. Si legge: “il presidente della Repubblica deve contare sulla riservatezza assoluta delle proprie comunicazioni”. Giusto. Ma: la riservatezza delle comunicazioni è un diritto costituzionalmente riconosciuto a tutti i cittadini, derogabile solo ove la legge lo consenta. Nel caso delle intercettazioni, la deroga è data dal giudice delle indagini preliminari. Alcune funzioni sono maggiormente tutelate, talché, ad esempio, i parlamentari non possono essere intercettati se non con l’autorizzazione della Camera d’appartenenza. Ebbene: dove si fonda la speciale tutela del presidente? Da nessuna parte, credo. E’ vero che egli è costituzionalmente irresponsabile, ma solo per l’esercizio delle funzioni elencate in Costituzione. Parlare con un signore che si lamenta di talune indagini non rientra fra quelle. Cosa significa “assoluta”? Alla Consulta sanno bene che il concetto è fumoso, nonché esistente la procedura che fa venir meno le guarentigie del Colle.

Capita, inoltre, che parlamentari e governanti vengano intercettati senza alcuna autorizzazione specifica, ma in base al fatto che si stava intercettando chi parla con loro. Dice ora la Corte: “se vi è divieto assoluto d’intercettazione ‘diretta’ (…) sarebbe ‘naturale’ che sussista un divieto (…)” anche per quella indiretta. Strano uso dei verbi e del concetto “naturale”. E’ vietato o no? Sì, dice la Corte. Ma se è vietato per il presidente dovrebbe essere vietato anche per gli altri, visto che non vi è alcuna legge che distingua, né base costituzionale per distinguere (fuori dall’esercizio delle funzioni presidenziali). L’impressione, insomma, è che queste intercettazioni vanno alla distruzione, ma il problema no.

Nelle motivazioni, assai più che nel dispositivo (già conosciuto e commentato), si coglie l’imbarazzo in cui s’è trovata la Corte, dato che a fronte di un comportamento certamente illegittimo della procura palermitana hanno dovuto esaminare un ricorso relativo non al principio, quindi destinato a fissare paletti ineludibili, ma a distruggere specifiche conversazioni, inserite in uno specifico procedimento penale. Non una bella pagina, per nessuno. La procura, con il candidato Antonino Ingroia in testa, è bocciata in diritto e pesantemente ammonita circa l’uso del potere d’indagine (che è poi il potere delle toghe all’assalto della politica). Il Quirinale ne emerge come un garante che s’è ribellato quando toccato direttamente, ma che non seppe cogliere il vulnus costituzionale allorquando altri poteri sono stati intercettati e massacrati. La Corte ne emerge come un arbitro in affanno, tenuta a una sentenza il cui opposto sarebbe stato non solo inimmaginabile, ma micidialmente destabilizzante. E quando l’arbitro deve avere di simili preoccupazioni è segno che la partita, da tempo, è degenerata.

Pubblicato da Libero

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