Giustizia

Intercettazioni e propaganda

Intercettazioni e propaganda

Trattando d’intercettazioni telefoniche si misurano i guasti delle opposte propagande, quella che nega il problema e quella che non lo risolve. Ci sono evidenze che nessuno può negare: a. l’ascolto delle telefonate può essere un utile strumento s’indagine, ma in Italia si ascolta troppa gente, per troppo tempo; b. il giornalista ha il dovere di pubblicare le notizie, ma da noi si riempiono le pagine trascrivendo quel che le procure allungano, anche quando non c’è l’ombra di un reato; c. un pubblico ministero ha il diritto d’esprimere opinioni, ma da noi sono divenuti i protagononisti del reality giudiziario, che si svolge più in televisione che in tribunale. E così andando, con decine d’evidenze eguali e contrapposte. Temo che le soluzioni parziali siano inutili, benché scatenino polemiche oziosamente furibonde.
Cominciamo dai giornalisti, visto che questo è un giornale. Quando si sente parlare di carcere la mente corre alle dittature, al tentativo d’impedire l’espressione del dissenso. Difatti, nella graduatoria dei giornalisti galeotti, i Paesi senza libertà presidiano la vetta. Ma non c’è solo questo, perché il Committee to protect journalists, con sede a New York, pose in buona posizione anche gli Stati Uniti, con cinque ingabbiati. Solo che, a leggere attentamente, si scopre che quattro erano inviati in Iraq ed uno a Guantanamo, rifiutandosi di rivelare la fonte di notizie che avevano diffuso. Non si deve essere un militare per capire la rilevanza del problema, in termini di sicurezza. Tre anni fa finirono in due nelle carceri olandesi, anche in questo caso perché non rivelavano la fonte relativa, però, all’attività dei servizi segreti. Ancora una volta, dunque, era in ballo la sicurezza. Il caso Italia è del tutto diverso, perché se si dovesse mandare al gabbio chi pubblica carte giudiziarie si farebbe prima a mettere le grate alle redazioni.
Il giornalista, però, dispone di documentazione relativa alle inchieste perché sono i magistrati a fornirla. I copisti di procura, da noi, sono un esercito. Deontologicamente sono una schifezza, ma risulta comico che debbano essere processati dai loro complici. Nel disegno governativo è punito anche il magistrato, ma a giudicarlo saranno i suoi colleghi. Secondo voi, come va a finire?
Non diversamente vanno le cose, anche su altri temi. Si potrà intercettare solo chi il giudice delle indagini considera gravato da “evidenti indizi di colpevolezza”. A parte che, se sono evidenti, tanto vale processarlo e condannarlo, capiterà che gli indizi saranno considerati tali quando si spera d’incastrare l’indagato. Quindi cambia poco.
Si potrà intercettare solo quando il reato contestato prevede una pena superiore a cinque anni. E che problema c’è? Basterà ipotizzarne uno mostruoso, che, se poi non si trova lo straccio di una prova, lo si derubricherà, senza che nessuno faccia rilevare la temerarietà di tale condotta. Intanto si va ad intercettare. In ogni caso, come sopra, il giudizio è discrezionale, e tocca ad un collega di chi fa la richiesta.
Le intercettazioni potranno durare “solo” sessanta giorni. Ho letto carrettate di fesserie, a tal proposito, indirizzate al lamento secondo cui si tratterebbe di un gran regalo ai delinquenti. Roba da pazzi, perché l’intercettazione non è l’unico strumento d’indagine, e faccio osservare che la legge già limita la durata delle indagini. O vogliamo sostenere che tutti possono essere indagati per tutta la vita? In ogni caso, la faccenda è irrilevante. Se andate a studiare le carte processuali scoprite che, quando le intercettazioni sono decisive per l’accusa, la telefonata che incrimina segue di pochi giorni, talvolta di poche ore, l’autorizzazione all’ascolto. Quelle successive contano meno. Com’è possibile? Spiegazione: il soggetto era intercettato da mesi, ma l’autorizzazione è stata chiesta solo quando utile. Il che, però, toglie efficacia alla nuova norma.
Poi ci sono gli imbrogli veri e propri, come quelli che tendono a confondere le indagini giudiziarie con la sicurezza nazionale. Negli Stati Uniti, a fini processuali, s’intercetta infinitamente meno che in Italia, e solo in casi eccezionali, ma per la sicurezza s’intercetta di più, solo che i risultati sono utili a sventare attacchi, non a reggere le accuse dei procuratori. Noi confondiamo le due cose perché siamo guastati dall’obbligatorietà dell’azione penale e dalla convinzione che spetti ai giudici reprimere il crimine.
Il dramma della giustizia italiana, ciò che la fa essere in coma costante e profondo, è la lentezza e l’inefficienza. La proposta governativa non fa affatto “morire” la giustizia, come strillano le toghe sindacalizzate. Temo, però, che neanche la faccia rivivere.

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