Giustizia

Jean Calas

Jean Calas

Un certo numero di magistrati italiani desiderano che possano diventare prove le cose dette e non riscontrante, non rafforzate da ulteriore elementi materiali. E’ un desiderio coltivato in special modo da certi pubblici ministeri, cioè da quanti, anche in barba a quel che dicono le leggi, pensano se stessi come accusatori di professione.

Partendo da questo desiderio, che si spaccia come sistema per combattere la criminalità, sono in molti ad essersi opposti alla riforma dell’articolo 513 del codice di procedura penale, una riforma di banale civiltà : non valgono le accuse che un testimone espone ad un accusatore, se poi lo stesso testimone non le ripete in Tribunale, alla presenza dei giudici e degli avvocati difensori.

A tutti coloro i quali credono nelle prove orali e nelle confessioni, così come a tutti coloro che assistono inerti a questo spettacolo, vogliamo ricordare un caso realmente accaduto, e molto istruttivo.

Capitò ad una famiglia di persone per bene, religiose, ma non fanatiche. Fra i figli ve ne era uno, introverso e vagamente squilibrato. La famiglia, per salvare il proprio buon nome (che, purtroppo, i pregiudizi e l’ignoranza sono causa di non pochi mali), celò sempre questo stato di cose.

Una sera, nel corso della cena, e senza che fosse avvenuto nulla di particolare, questo figlio chiese di alzarsi e ritirarsi. Un suo fratello aveva invitato un amico, e fu proprio questo fratello, in compagnia di questo amico, che fecero, più tardi, la macabra scoperta : il giovane si era allontanato da tavola, era sceso al piano di sotto e si era impiccato. Il dolore e la disperazione si impadronirono dei presenti. Ma essi non sapevano che il peggio doveva ancora arrivare.

Fu avviata, infatti, un’inchiesta giudiziaria e subito fu seguita la pista dell’omicidio. Si pensò, infatti, che essendo il giovane morto in procinto di convertirsi ad altra religione il padre, per evitarlo, lo avesse impiccato. Il padre, arrestato, aveva pregato gli altri familiari di non dire che il giovane si era impiccato. Perché lo fece? Perché inquinò le prove, al punto da lanciare i presupposti della sua presunta colpevolezza?

Lo fece perché il suicidio era contro la legge di Dio e, pertanto, il cadavere doveva essere seppellito con disonore. Lui, invece, amando il figlio morto, voleva evitargli questa sorte. Ed i funerali, difatti, furono quelli di un martire.

Successivamente il pover uomo cercò di spiegare come erano andate le cose. I testimoni erano tutti a suo favore, compreso l’amico del figlio e la cameriera. Ma rimaneva il fatto che quell’uomo si “contraddiceva”. Non eravamo nell’Italia di oggi, ma nella Francia del 1762. Così Jean Calas, commerciante tolosano, ugonotto, fu torturato a morte, sulla pubblica piazza. Al prete che, fra i tormenti, implorava che confessasse, rispose : “ma non crederà mica, padre, che si possa uccidere un figlio”.

Noi non conosceremmo questa storia se non se ne fosse occupato un uomo chiamato Voltaire. Scrisse molto. Si batté per la revisione del processo, la ottenne e, con questa, ottenne anche la riabilitazione del povero Calas. Morto innocente.

Alla lettura della sentenza Voltaire scoppiò in lacrime. Noi ci rammarichiamo che si possa entrare nelle aule di giustizia, così come si possa assistere allo spettacolo delle condanne, senza mai avere letto quelle pagine.

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