30 gennaio 2002 – 31 maggio 2004. La prima data si riferisce all’uccisione, con selvaggia violenza, di un bambino. La seconda è quella cui è stata rinviata l’udienza preliminare, che vede la madre accusata dell’omicidio. Due date che tengono in sé il suicidio della giustizia.
La scena del delitto è una sola. Le cose da periziare sono sempre le stesse. La persona indagata, fin dall’inizio, è una sola. Diciamo che, fra raccolta d’elementi oggettivi, perizie psichiatriche, predisposizione dell’accusa e tempi per organizzare la difesa, il tutto si sarebbe dovuto chiudere entro l’estate del 2002. Sei mesi erano già un tempo largo. Invece siamo a niente, alle schermaglie procedurali, alla richiesta di rinvio a giudizio. Siamo ad un gradino prima del processo, che, secondo le statistiche, porterà via dai quattro agli otto anni. Ma potrebbe durare anche di più.
Eppure, chi ha ucciso il bambino non è solo un criminale, è un pazzo criminale. Un soggetto assai pericoloso, capace di rifarlo. Un soggetto ancora oggi innocente, immacolato, non si sa neanche se individuato. Eppure, quella donna ha messo al mondo un altro figlio, e già ne aveva uno più grande del massacrato, la vita continua, ma come legata ad un laccio, ad un nodo scorsoio pronto a strangolarla quando sarà già corsa lontana. Che senso ha, tutto questo?
Ed è senza senso un giornalismo che ancora racconta di perizie, di pigiami insanguinati, di schegge d’osso partite dal cranio del piccino, senza cercare nel proprio cranio un minimo di ragionevolezza, senza accorgersi che il sabba cui si partecipa è l’ennesima infamia di una giustizia in bancarotta.