Giustizia

La pietra al collo

La pietra al collo

Non si sa chi abbia ucciso Simonetta Cesaroni. Sono passati venti anni, da quel 7 agosto 1990, ed è appena cominciato il processo che vede l’ex fidanzato come imputato. Ovunque, nel mondo civile, questo sarebbe archiviato come un insuccesso delle autorità inquirenti, da noi, invece, lo si riesuma, periodicamente, per esaltare la tenacia di chi conduce le indagini. Ogni volta che il delitto di via Poma torna agli onori della cronaca, automaticamente, torna, in video e in pagina, la foto di Pietrino Vanacore. Ora si è tolto la vita, gettandosi in acqua con una pietra al collo. Ha scritto: “venti anni di martirio senza colpa e di sofferenza portano al suicidio”. Quella pietra al collo ce la sentiamo un po’ tutti, e dovrebbe sentirsela la giustizia italiana, che sa essere feroce nel punire, pur non essendo capace di giudicare.

Vanacore, il portiere dello stabile, che trovò il cadavere di Simonetta, fu arrestato tre giorni dopo, il 10 agosto. Figuriamoci, il mese peggiore. Non ci sono notizie, ed è anche scarsa la voglia di lavorare, per i giornalisti. Così le cronache si riempirono di quest’omicidio, scandagliando e scardinando la vita di quel disgraziato. Gli andò anche bene, perché fu scarcerato il 30 agosto e, meno di un anno dopo, il 26 aprile del 1991, fu accolta la richiesta d’archiviazione, presentata dalla procura stessa. Ci volle più tempo, fino al gennaio del 1995, perché la Cassazione ponesse la parola “fine” alla faccenda, rendendo definitiva l’archiviazione. Ad ogni passaggio, però, i giornalisti tornavano a ricordare quell’agosto afoso, e corredavano il copiato con la foto di Vanacore. Ma, insomma, era finita, e lui si ritirò a vivere nella Puglia da cui era venuto. E dove ora s’è ammazzato.

Perché ora? Perché nonostante la Cassazione, in Italia la giustizia non sa usare la parola “fine”, sicché una nuova indagine è stata archiviata appena ieri, nel maggio del 2009, e l’anno precedente, il 20 ottobre 2008, Vanacore aveva subito l’ennesima perquisizione domiciliare. Ora era atteso in tribunale, il prossimo 12 marzo, per testimoniare. Non era neanche tenuto a rispondere, perché la giustizia lo considera ancora “indagato in procedimento connesso”. Ma, statene certi, venerdì e sabato prossimi Vanacore avrebbe visto ancora il suo volto, esposto alla nazione, associato all’omicidio. Ha deciso di risparmiarselo, o, più probabilmente, non ha saputo reggerlo.

La domanda è: che senso ha? Quale legge ha stabilito la possibilità di condannare all’ergastolo mediatico dei cittadini che sono riconosciuti innocenti, ma di cui l’ultimo pennivendolo può disporre, usando le immonde formule di “già indagato”, “fu imputato”, “a lungo sospettato”, “protagonista di una storia oscura”, e così via macellando? Un cittadino, per il solo fatto d’essere tale, può accettare d’essere ingiustamente sospettato e accusato, salvo riuscire a dimostrare, in tempi brevi, la propria innocenza. Subisce un danno, comunque, talora gravissimo, ma ciascuno di noi sa che può accadere. Quel che non dovrebbe accadere è che per il resto della vita si sia un oggetto nelle mani di chi non sa che pesci prendere, non sa che storie raccontare, e, quindi, ricorre al tuo nome ed alla tua faccia quando gli fa comodo.

E, si badi, questo vale per la giustizia, che è incivilmente e inconcludentemente interminabile, ma vale anche per il resto della società, per ciascuno di noi. Anzi, ad un certo punto dovremo ammettere che abbiamo la peggiore giustizia del mondo civile anche perché abbiamo la peggiore politica e la peggiore cultura giuridica. Mancano, o sono flebili, le voci capaci di dire: basta. Guardatevi attorno: la politica si rinfaccia questioni giudiziarie, anche se chiuse, anche se campate per aria. Le tifoserie politiche non fanno che parlare d’accuse penali, pensando che possano surrogare il giudizio morale e politico. La giustizia stessa campa d’accuse e ci lascia a digiuno di sentenze. Il tutto imbarbarisce il nostro vivere civile e seppellisce la presunzione d’innocenza, trasformando chiunque in presunto colpevole, anche se assolto. Vanacore s’è spinto oltre: ha preteso d’avere l’ultima parola. Non gli sarà riconosciuta neanche quella.

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