Libro davvero particolare, quello che racconta la storia di Francesco Misiani. “La toga rossa”, scritto dallo stesso Misiani, con la collaborazione di Carlo Bonini.
Intanto perché le autobiografie, solitamente, non sfuggono ad una certa indulgenza verso se stessi, Misiani, invece, non si stanca di mettere in fila e raccontare i propri errori, e, talora, i propri orrori.
E’ un orrore che un magistrato italiano, pagato per amministrare la giustizia, abbia esaltato, per pura passione ideologica, i processi che i comunisti cinesi celebravano negli stadi, non di rado comminando la pena di morte. E’ un orrore senza attenuanti, se non quella di avere trovato il sufficiente livello di estraneità per poterlo raccontare. Già, perché Misiani, divenuto insensibile al dolore, si squarcia le carni e le espone al pubblico giudizio. I giornali hanno parlato di questo libro, ma, davvero, è il caso di prenderlo e leggerlo. Dalla prima all’ultima pagina.
Misiani ha voluto scriverlo, questo è evidente, per trovare il modo di parlare del caso che lo ha coinvolto, e ci verremo. Dopo, però. Prima è il caso di richiamare l’attenzione su alcune pagine assai significative, del tutto trascurate da chi, fino ad oggi, ha parlato del libro.
Misiani racconta della sua collaborazione con Domenico Sica, allora alto commissario per la lotta alla mafia. Ed è a proposito di quel periodo che illumina il lettore su un aspetto drammatico del mestiere di magistrato. Il dramma, cioè, di quando l’uomo magistrato smette di sentirsi chiamato ad applicare le leggi e comincia a sentirsi protagonista di una lotta del bene contro il male.
Quale male è più evidente della mafia? e quale bene è più ovvio del combatterla? Già, ma, per quanto strana la cosa possa sembrare, questa non è una questione che riguarda i magistrati. La politica può lottare contro la mafia; le associazioni civili, possono farlo; la chiesa, ma non la magistratura. La magistratura è chiamata ad amministrare il rispetto delle leggi. Essa combatte i reati condannando i colpevoli, ma mai lottando contro fenomeni sociali. Misiani, toga rossa, garantista di sinistra, mette bene in luce il dramma quando racconta che per abbracciare quella lotta dovette negare se stesso. Ma, ed è questo il punto, se la giustizia nega se stessa e le proprie regole, sia pure per superiori motivi di giustizia, ecco che cessa di esistere, diviene strumento di lotta politica.
E’ un prezzo che si può pagare, sosterrà qualcuno, se il fine è quello di debellare il crimine organizzato. No, diciamo noi, non è un prezzo che si possa pagare. Un volta pagatolo, difatti, chi stabilisce ove ci si ferma? chi stabilisce quali sono i fini di giustizia? chi stabilisce contro quali reati si debba, in tal modo, procedere? No, una volta pagato quel prezzo tutto si inquina.
Una volta pagato quel prezzo si è già culturalmente pronti ad occultare le prove di altri scandali, sempre per fini di giustizia. Così come Misiani racconta a proposito dello scandalo Sisde, e del modo in cui si vollero proteggere alcuni personaggi intimidendo i testimoni e gli imputati. La ragion politica poteva richiedere che quell’inchiesta fosse insabbiata, ma se tale ragione si vuol far valere, allora si deve essere pronti ad abolire l’obbligatorietà dell’azione penale. Se, invece, mantenendo l’obbligatorietà si vuol anche far valere certe ragioni politiche, o di Stato, allora si corrompe la magistratura. Ed è esattamente quel che Misiani racconta. Racconto interessante ed istruttivo. Alla luce del quale va riletta, e forse riaperta, quell’inchiesta.
L’obbligatorietà dell’azione penale, che attualmente esiste, non impedì, del resto, a Misiani di non procedere contro il pci-pds per fatti di corruzione. E quel che egli racconta, quel che ci dice sulla sua ammirazione per quegli uomini (in altri casi detti semplicemente : collettori di tangenti), è sufficiente a far comprendere che, comunque la si voglia pensare, la vigente obbligatorietà è una burla. In realtà i magistrati inquisiscono chi pare a loro, e non chi pare al codice.
Illuminanti, infine, le pagine sulle inchieste Mani Pulite. Non ci sono rivelazioni, c’è, però, l’esatta misura di quanto e come il rito ambrosiano degli arresti facili abbia inquinato la giustizia e le coscienze di chi l’amministra. Misiani non si accorge dell’ingiustizia, o, almeno, pur accorgendosene non vi si oppone, anzi la pratica, con alacrità, con impeto, fin quando si trova a fare il dipietrino. Poi, però, quel metodo forsennato ed incivile di far giustizia lo assapora come accusato, ed allora capisce. Analogo il percorso di Michele Coiro, che ricorda il proprio garantismo quando avrà bisogno di garanzie.
Intendiamoci, non c’è alcuna ironia nelle nostre parole. E’ importante ed è istruttivo il percorso di Misiani. Ed è rivelatore il suo accorgersi della bestialità solo quando la bestia morderà le sue carni.
E la bestia è animata da magistrati che, senza scrupoli, sbattono in galera o mettono sotto accusa non sulla base di prove, ma aspettando le prove dagli arrestati e dagli indagati. Ed è resa forte da un sistema dell’informazione che forsennatamente si accanisce sugli sconfitti, fino a chiamarli in causa, come anche a Misiani è capitato, anche quando non c’entrano un bel niente. Un sistema di massima inciviltà che corrompe la società, che la corrompe al punto da far apparire irrilevanti e futili le “verità” che così accerta.
Misiani è stato, con la toga sulle spalle, per moltissimi anni, l’uomo sbagliato nel posto sbagliato. E’ increscioso che ce lo abbiano lasciato e che lo abbiano lasciato fare. Il suo libro, al contrario, può essere assai utile per comprendere una cosa che ancora moltissimi non capiscono : non aspettate, per comprendere lo stato di avvilimento e strumentalità con cui è amministrata la giustizia in Italia, che bussino alla vostra porta.