Leggo l’Antonio Di Pietro intervistato da Barbara Palombelli: “Sono l’unico ad avere la storia completa di un decennio di processi: una montagna di carte e di floppy disc che conservo in posti sicuri”.
Lo ha detto a proposito di alcuni uomini politici: “Li vedo muoversi sicuri, nella seconda Repubblica, e so tutto di loro”. Come al solito, l’uomo ha una grammatica tutta sua, ed un modo tutto suo di fare il gradasso.
Ho un archivio migliore del suo, non foss’altro perché conservo memoria delle sue magagne, delle sue omissioni, dei suoi scheletri. Detto ciò, e comunicato al noto italianista che di floppy disc ne servono assai meno di una montagna, si desidera sapere: ma di che è fatto il suo archivio? Perché, se è fatto di giornali, d’atti pubblici, di documenti noti, non vale una cicca e, forse, la giornalista avrebbe dovuto farglielo osservare. Se, invece, come lui vuol far credere, è composto di documenti raccolti nel corso dello stipendiato lavoro presso la Procura di Milano, allora si tratta di un reato. Sarebbe nobile, da parte sua, confessarlo. Sarebbe ignobile, stante l’obbligatorietà dell’azione penale, non chiamarlo a risponderne.