Giustizia

L’autocontrollo non basta

L'autocontrollo non basta

Ma sì, certo, il Presidente della Repubblica ha ragione, si dovrebbero abbassare i toni. Ma non è quello che accadrà. Ed è vero anche che un governo con a disposizione una maggioranza parlamentare non cade per le incursioni giudiziarie. Così è scritto nella Costituzione, ma è già successo il contrario. Siamo ancora dove eravamo, dopo quindici anni di un conflitto che ha logorato le istituzioni. E non basta, il Quirinale lo comprenda, sollecitare l’autocontrollo, perché pendolando dall’autogoverno all’autoriforma, in un fai da te togato che finisce regolarmente nelle mani degli estremisti, non si ottiene altro che il prolungarsi e l’incrudelirsi della belligeranza. Serve uno stop, che sia piantato nelle riforme, non che galleggi sulle parole.
Gli avvocati penalisti hanno scioperato, per la “legalità della pena”, ma senza trovare interlocutori. Non c’è nessuno, solo appena equilibrato, che possa dissentire dal grido dell’Unione Camere Penali, contro il sovraffollamento delle carceri e contro l’idea che la maggiore sicurezza nel trattene i delinquenti debba coincidere con il limitare i loro colloqui con gli avvocati (lo stabilisce il regime di “carcere duro”, quello che nella presunta, fantasiosa e demenziale trattativa fra Stato e mafia sarebbe dovuto essere cancellato, e che è ancora lì). Ma, al tempo stesso, ciò di cui parlano i penalisti è fuori tema rispetto a quanto è sulla bocca di tutti. Essi si occupano della giustizia, mentre la scena pubblica è occupata dai procedimenti giudiziari che riguardano una sola persona. Da anni sosteniamo che la soluzione del secondo problema (reale, naturalmente, non immaginario) si agguanta affrontando il primo, ma, evidentemente, o ci sbagliamo noi o non troviamo alcuna forza politica disposta a ragionare. Che, forse, è la stessa cosa.
C’è chi dice che siamo in una situazione simile a quella del 1992, con la politica sotto scacco giudiziario e continue voci d’avvisi di garanzia o condanne imminenti. Non lo credo, ma neanche credevo si potesse essere in una condizione peggiore, come, almeno per certi aspetti, è. Allora il colpo giudiziario ebbe un’intelligenza ed una guida politica, partendo dall’inconfutabile realtà del finanziamento illecito. Il punto di caduta sarebbe stato un governo commissariato, retto dagli (appena) ex comunisti e destinato a favorire l’arricchimento di pochi. In parte funzionò, poi fu stoppato dalla vittoria elettorale del centro destra. Oggi quel vantaggio elettorale è accresciuto, ma è anche dilagante una corruzione, minuta e consistente, non più coincidente con il finanziamento della politica. Il fallimento del manipulitismo è stato totale, come avvertimmo per tempo. Il terreno penale scelto per l’attacco a Berlusconi è diverso e pericolosissimo, giacché tutto basato su pentiti e storie di mafia, essendo il resto di scarsa rilevanza o prossimo alla prescrizione. E ciò non di meno lo spettacolo che a tutti si offre è quello di una guerra fra istituzioni, menata contrapponendo diversi principi costituzionali, al fondo della quale c’è solo il disfacimento nazionale.
Abbattere Berlusconi per via giudiziaria è la cosa peggiore che possa capitare al Paese. Ciò dovrebbe essere chiaro a chiunque non abbia del tutto smarrito il senso di responsabilità, prostituendolo ad una tifoseria priva di qualsiasi idealità. Dall’altra parte, però, si dovrebbe evitare di accettare lo scontro solo quando si parla di determinati processi, abbandonando le armi non appena smette d’incombere il pericolo.
C’è capitato di ricordare, in occasione della richiesta d’arresto di un parlamentare, che il reato di “concorso esterno in associazione di stampo mafioso”, semplicemente, non esiste. Da quel giorno vedo che non pochi s’esercitano sul tema. Bravi, ma noi lo scriviamo da anni. E, riassumendo brutalmente, quel non reato nacque con una delega che la politica firmò alla magistratura, prima per il terrorismo, poi per la mafia. E’ ora di tornare alle regole ed al diritto, ritirando la delega e riprendendo in proprio, ove se ne sia capaci, la politica contro la criminalità organizzata. C’è capitato, poi, di far osservare che non serve avanzare sullo sdrucciolevole “processo breve”, mettendo a rischio il già sbilenco equilibrio della giurisdizione, per porre il capo del governo in sicurezza, rispetto ad imminenti condanne. Si deve, invece, puntare sulle leggi esistenti e sulle sentenze della Corte Costituzionale, che parlano chiaro, in quanto a legittimo impedimento. E si deve, dall’altra parte, puntare alla riforma della giustizia, anche ripristinando il costituzionale principio che protegge il governante ed il legislatore dalle iniziative delle procure. Le quali ultime non sono la “giustizia”, che, invece, arriva dopo, ma un potere a sua volta esecutivo, capace di coartare la liberà in assenza di condanna e, non a caso, in democrazie esemplari dipendente o dal governo o dalla volontà degli elettori.
Vorrei vederle, queste riforme, ma faccio fatica a crederci. Per la rissa, è noto, bastano le mani. Per costruire occorre anche qualche idea. Bene scarso, e non da poco.

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