Qualcuno poteva anche credere che la Procura di Palermo avesse avviato, con animo sereno e senza alcuno scopo di personale persecuzione, il procedimento penale contro Andreotti, in ossequio al principio che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, e che, quindi, non scelse un imputato eccellente per assicurarsi visibilità, notorietà e trionfi mediatici, od ottenere risultati politici.
Basterà leggere l’articolo che Giancarlo Caselli ha consegnato a La Stampa, per rendersi conto che le cose stanno diversamente.
Il “Procuratore generale di Torino”, che con questa qualifica firma il suo articolo, come fosse un atto giudiziario, come fosse un’opinione più qualificata ad interpretare le sentenze, proprio perché giunge da un collega degli estensori, come se scrivere articoli, far conferenze, tenere lezioni, farsi fotografare, siano fra i compiti per i quali un magistrato viene retribuito dallo Stato, il “Procuratore generale di Torino”, dicevo, prende carta è penna per comunicarci che ci siamo tutti sbagliati: Andreotti non è stato ritenuto innocente, bensì colpevole di rapporti con la mafia.
Caselli non ha torto, su un punto. Le due assoluzioni incassate dall’imputato (che sono anche due smentite per l’accusa, quindi per Caselli), avevano, nel corso della revisione, concentrato la loro attenzione sui fatti più recenti, cioè dal 1980 ad oggi, ritenendoli del tutto non idonei a provarne la colpevolezza (quindi Caselli aveva torto), mentre, appunto in appello, aveva omesso di considerare penalmente i fatti precedenti la primavera del 1980, giacché, in ogni caso, erano caduti in prescrizione. Alla Cassazione si erano rivolte sia l’accusa che la difesa. L’accusa voleva che si giudicasse nulla l’assoluzione; la difesa chiedeva che per i fatti più lontani fosse esteso il giudizio d’assoluzione, superando il principio della prescrizione. La Cassazione, seguendo quanto già indicato dal Procuratore Generale, ha rigettato entrambe i ricorsi, riconsegnando un Andreotti mai condannato (per mafia, in questo processo), quindi innocente.
Caselli ha ragione, pertanto, a scrivere che il giudizio della Cassazione non è stato univoco, che sono stati rigettati due ricorsi, non uno, ma commette uno sfondone atroce quando scrive, chiaro chiaro, che “la Cassazione (ribadendo l’assoluzione per i fatti successivi) ha confermato che fino alla primavera del 1980 l’imputato ha commesso il reato di associazione con i mafiosi dell’epoca”. Una tesi, questa, che cozza irrimediabilmente con quanto scritto nella nostra Costituzione, con la lettera e lo spirito della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, il tutto con l’augusto sigillo del “Procuratore generale di Torino”.
Ora, secondo me, ci sono tre possibilità. La prima è che il Procuratore generale di Torino non conosca o dissenta dalla Costituzione e dai due trattati internazionali citati, vivendo nella convinzione che la prescrizione sia una specie di “colpevolezza scaduta”, e non la decadenza di un diritto ad accertare la verità e l’insorgenza di un diritto a non essere inquisiti quando il tempo passato è troppo. La seconda possibilità è che il Procuratore generale di Torino ben conosca il diritto, ma il suo coinvolgimento personale in questa causa è tale da non riuscire a tenere a bada il proprio risentimento. La terza è che il Procuratore generale di Torino prediliga il ruolo di commentatore ed opinionista a quello di magistrato. In tutti e tre i casi: che ci sta a fare alla Procura generale di Torino?