Giustizia

L’inutile scontro

L'inutile scontro

La reazione, cieca e corporativa, della magistratura associata contro il disegno di legge Castelli, è così violenta e totale da far venire la voglia di tifare a favore del disegno governativo. Ma sarebbe, questo, un modo sbagliato di ragionare. L’ordine giudiziario va demolito come potere e restituito alla sua lealtà costituzionale, al suo ruolo legale.

Per ottenere questo si deve fare appello alla consapevolezza di molti uomini di diritto che, dentro e fuori la magistratura, ben conoscono lo stato di degrado e deragliamento cui si è giunti.

Per ottenere questo occorre sapersi rivolgere all’opinione pubblica, fugando il timore che sia in corso un regolamento di conti, e chiarendo quello che molti già sanno: il corretto funzionamento della giustizia è un bene collettivo, un ingranaggio irrinunciabile del vivere civile, una garanzia senza la quale il nostro mercato economico è meno affidabile. Per ottenere questo si può anche mettere in conto uno scontro con gli interpreti più ottusi del corporativismo giudiziario, così anche con i fomentatori ideologici delle toghe che si sentono al servizio non delle leggi, ma di un disegno politico.

Quello che non si può e non si deve fare, invece, è gettare tutto e tutti al centro di un’arena gladiatoria, accrescendo il livello dello scontro, senza per questo avere la capacità di portare a casa riforme che servano a qualche cosa. Purtroppo sembra che proprio in ciò questa maggioranza si sia specializzata.

Per far passare le leggi sulle rogatorie e sul legittimo sospetto, leggi giuste, opportune, ma tutt’altro che decisive, si è apparecchiato un titanico scontro, si sono levate urla, s’è paventata la fine del modo e della democrazia, ed alla fine, cosa rimane? Niente, o quasi. Per inserire nella Costituzione il principio del giusto processo, ovvero di un processo i cui tempi non siano intollerabilmente lunghi, si è avviato un tale putiferio che, ad un certo punto, non si è più stati in grado neanche di spiegare che quel principio c’era già, nella Costituzione, in virtù della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Alla fine, quindi, nelle nostre gerarchie giuridiche non è cambiato niente (o poco), mentre i processi sono sempre più lunghi, quindi sempre più ingiusti.

In tutti i casi citati la corporazione togata ha strepitato e scalciato, ma batterla non è servito. Servirà con il ddl ora in discussione?

Intanto non introduce il minimo indispensabile per potere credere in un sistema di giustizia, ovvero la separazione delle carriere fra accusatori e giudici. Per questo sciopereranno gli avvocati, ed hanno ragione. L’assurdo, che ci rende unici al mondo, continuerà. Certo, il ddl introduce quale ostacolo ai traslochi, ma non elimina l’intollerabile colleganza. Per farlo, si dice, si dovrebbe rivedere la Costituzione. Non ne sono del tutto convinto, ma quand’anche sia, si riveda la Costituzione. Solo che quello sforzo lo si è già fatto, per il giusto processo, e con il risultato che si è visto. Mentre nelle plurime ed eterogenee riforme costituzionali in discussione la giustizia brilla per assenza.

E’ vero che il ddl introduce l’idea che la carriera dei magistrati non sia più del tutto indipendente dalla loro preparazione e dalla loro capacità di lavoro, e le toghe s’agitano alla sola idea di dover subire qualche esame, ma si tratta di un meccanismo non convincente. C’è un signore che s’aggira per l’Italia tentando di raccontare che al concorso in magistratura è stato bocciato, avendo fatto bene il compito, mentre sono stati promossi dei somari che neanche lo hanno finito. Istruttivo, non vi pare? Se le carriere fossero veramente separate, se l’accusa fosse una parte, varrebbe un meccanismo di selezione valido per ogni professione: chi sbaglia paga e se ne va. Il che è un bene, per la collettività.

E’ vero che il ddl descrive con maggior nitidezza le condizioni dell’azione disciplinare (anche se poi prevede, su sollecitazione delle toghe, una prescrizione di appena un anno e mezzo: come sono garantiste, con se stesse, le toghe!), ma dove vanno a finire, poi, tali azioni? Finiscono nel buco nero del Consiglio Superiore della Magistratura, che è divenuto un’emanazione corporativa dell’Associazione Nazionale Magistrati. E, allora, non prendiamoci in giro, le cose resteranno come sono e nessun magistrato subirà sanzioni per il modo in cui opera (esempio: uno che sostiene la sinonimia di “mercenario” e “guardia del corpo”, si dovrebbe poterlo restituire agli studi medi inferiori, invece se ne sta lì, come se la sua fosse un’opinione e non una boiata).

Sono questi i motivi per i quali si deve ragionare politicamente: cercare lo scontro per lo scontro non serve a nulla e non porta da nessuna parte, si agita la polvere e non si cambia un fico secco. Il contenuto del ddl Castelli potrebbe ben essere condotto in porto in un clima di totale armonia e consenso, perché è acqua fresca. Non veleno, non roba negativa, ma robetta da poco.

Delle due l’una: o si fanno riforme graduali, passo dopo passo, con realismo e costruendo il consenso; o si affronta di petto il problema, si mette in conto lo scontro e si ridisegna il pianeta giustizia. Ma agitare lo scontro per risultati così limitati, alla fine, non è solo inutile, è controproducente.

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