Il pianeta giustizia, oramai, versa in una crisi così grave da essere in guerra contro l’ovvio. La Corte di Cassazione dice: il giudice che emette la sentenza deve essere lo stesso che ha seguito il processo ed ascoltato i testimoni. Il che mi pare del tutto ovvio.
Pensate ad un giudice che vi condanna senza mai avere preso parte al processo e, quindi, senza mai avere ascoltato le cose che avevate da dire. Sgradevole.
Ma il giudice che subentra, diranno alcuni, legge gli atti. Ma va là, che in quel mondo non legge niente nessuno. Ero anche giunto a sospettare che quando si supera il concorso in magistratura, per festeggiare, si comincia a saltellate sugli occhiali, polverizzandoli.
Insomma, un bel giorno la Corte di Cassazione dice una cosa ovvia. Che succede? Apriti cielo: a repentaglio la lotta alla mafia; in pericolo i più importanti processi; anni di lavoro sprecati (e la cosa deve essere davvero dolorosa). Insomma un coro di dolore che la metà basterebbe a commuovere un cuore di pietra.
Noi, però, siamo diventati sospettosi, e di fronte allo scandalo che provoca l’ovvio non ci limitiamo a fare spallucce e pensare che siano tutti matti. No, noi cominciamo a pensare che quei processi erano stati istruiti così male da dovere finire, comunque, in tragedie, con assoluzioni che smentiscono teoremi e mettono alla berlina certi procuratori, o con condanne per ottenere le quali si deve fare diventare igienica la carta sulla quale si stampano i codici. La Corte di Cassazione giunge così in soccorso, favorendo la ricerca dell’unico istituto giuridico italiano mantenutosi incorrotto: la prescrizione.
Certo, si è levato questo intollerabile lamentio, ma è come quando la padrona di casa porge ai commensali una struggente torta al cioccolato: diabolica tentatrice, ululano gli astanti, sai che non possiamo mangiarne; ed intanto allungano il piattino, tristi che non sia un piattone.