Nella nostra Costituzione, purtroppo, vi sono molti articoli che hanno avuto un successo esclusivamente declamatorio, mentre non hanno avuto la fortuna di essere osservati e rispettati. Fra questi l’articolo 27, che è doppiamente sfortunato.
E’ sfortunato perché stabilisce che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, mentre basta leggere i mezzi d’informazione, ma anche, alle volte, non pochi documenti stilati da magistrati, per rendersi conto che la presunzione d’innocenza è stata abbondantemente calpestata. Quasi considerata desueta. E’ sfortunato, anche, perché stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Le carceri italiane sono il contrario.
Tutti dicono che del carcere non si può fare a meno, ma pochi ricordano che il carcere è un’invenzione recente, di appena un paio di secoli fa. Prima il carcere era solo la cella ove si sostava in attesa di un processo (che si sarebbe svolto nel giro di qualche giorno) o della condanna. Mentre le pene erano altre: violente, disumane, con finalità deterrenti ed educative nei confronti di quanti vi assistevano. Il carcere come pena, quindi, nasce proprio per evitare che la pena sia inumana ed abbia finalità vendicative nei confronti del condannato. Ci sono nomi come Cesare Beccaria e Jeremy Bentham dietro la concezione moderna di questa istituzione.
Ma il concetto di crudeltà, o inumanità è, come tutti i concetti relativi al nostro vivere civile, in continua e positiva evoluzione e, di converso, lo è anche il concetto di tortura. Una volta non vi era acqua corrente nelle case, si viveva in molti ammucchiati attorno al camino, unica fonte di calore, il gabinetto era fuori casa e non disponeva certo dello scarico che oggi utilizziamo. Oggi, invece, ciascun cittadino di questa parte del mondo considera un proprio diritto elementare il potere lavarsi, il potere defecare senza essere visto, il potere disporre di una certa, pur elementare, privacy. Oggi consideriamo un diritto elementarissimo il potere curarci quando siamo malati, l’avere accesso ad un medico, il potere disporre di un farmaco per l’influenza od il mal di testa. Si tratta di diritti talmente elementari che non ci accorgiamo neanche di averli e di esercitarli. Un po’ come il diritto di respirare.
Bene, anzi, male, perché questi diritti non sono affatto tali in carcere. E la privazione di questi diritti, oltre a rendere la pena inutilmente afflittiva, la rende anche esattamente contraria ad ogni sforzo di rieducazione. La pena dovrebbe consistere nella privazione della libertà (ed è già cosa enorme), ma se oltre che della libertà si viene privati anche della propria umanità (connessa al riconoscimento dei diritti elementari), essa otterrà un risaltato assai negativo: dal carcere si esce peggiorati. Senza alcun vantaggio, e con molti svantaggi per la società.
Questo, tanto per essere chiari, non è un problema esclusivamente italiano, e, anzi, è comune a tutti i paesi civili. Quello in cui l’Italia si distingue è l’assoluta indifferenza, l’incultura della classe dirigente, il letargo delle menti e delle coscienze civili. L’Italia è malata di illibertà, ha corrotto la propria coscienza per renderla insensibile, ha dato una maschera politica al cinismo ignorante, finge di credere giusto l’inumano per potere assolvere la propria incapacità, la propria cecità, la propria cattiva coscienza.
Faccio un esempio. In Francia è stato pubblicato un libro scritto da Véronique Vasseur, che è stata medico capo presso La Santé, il carcere parigino. La sua è una denuncia spietata sia della condizione carceraria sia della sanità carceraria. Ma è anche una finestra attraverso la quale il cittadino comune può guardare dentro un universo chiuso ed a lui sconosciuto.
Tutto il mondo è paese, e La Santé è piena di tranquillanti e sonniferi, elargiti in dosi pantagrueliche ai tossicodipendenti (che, così, non fanno che aumentare la loro dipendenza rendendo non solo inutile, ma controproducente il tempo della detenzione). E tutto il mondo è paese anche nel constatare che queste tonnellate di tranquillanti e psicofarmaci non vengono sempre consumate, ma accumulate dai detenuti per essere poi lo strumento di altri commerci o il sistema di pagamento con cui acquistare la propria incolumità. Tutto il mondo è paese nel constatare che il numero dei suicidi, in carcere, è elevatissimo; nel prendere atto che le condizioni igieniche sono terrificanti; nel sapere che le patologie infettive, specie quelle della pelle, dilagano in un modo sconosciuto all’esterno.
La signora Vasseur, però, ci regala anche sue sensazioni personali, preziosissime. Come quelle in cui descrive l’incubo di essere rimasta chiusa dietro un cancello, con la guardia che arriva tardi e lentamente, ed avere provato, sia pure per poco, sia pure con la certezza di potere poi uscire, l’angoscia di chi quei cancelli non può passarli. Ma il passo più bello, quello che rende meglio la diversità di questo universo, quello che chi si pretende estraneo non riuscirà mai a capire, è quello che ella dedica a Paul Tourvier: capo della milizia di Lione, condannato per crimini contro l’umanità. Il medico ha seguito, da cittadino, il processo ed ha sperato nella condanna. Il medico, adesso, si accinge alla prima visita del nuovo detenuto: sarà professionale, sicuro, distaccato, ma dentro di sé non può certo nascondere l’avversità, forse anche lo schifo, per quell’individuo. Scrive la Vasseur : avevo deciso di non essere cordiale. Ma poi si confonde difronte a questo vecchio piegato, colpito, cortese. In carcere l’uomo si separa dai suoi crimini. Morirà da detenuto, ed il medico capo non ci descrive la propria commozione sol perché ce la lascia intendere.
Il libro della Vasseur ha suscitato, in Francia, un gran dibattito e molte reazioni. Si sono preparati e firmati appelli al ministro, la signora Elisabeth Guigou, nei quali, fra le altre cose, si denuncia che su 55.000 detenuti, in Francia, ben 27.000 sono da considerarsi innocenti, visto che non hanno subito delle condanne definitive, che oltre 2.000, ogni anno, vengono riconosciuti totalmente innocenti e che più di 120, ogni anno, si suicidano. Si denuncia che il sistema non funziona se ben il 60% dei detenuti scarcerati torna, poi, in prigione. E si sottolinea quel che scrivevo all’inizio: la privazione dei diritti elementari rende incivile e violento il carcere, vanificandone ogni intento rieducativo.
La sinistra francese, la sua ala intellettuale e militante (e ne cito uno per tutti, il Jean Daniel del Le Nouvel Observateur) si è subito mobilitata affinché il governo di sinistra agisca concretamente per porre rimedio alle allucinanti mancanze, insufficienze ed inumanità che venivano denunciate. Da noi, invece, un bel niente. Silenzio. Letargo. I chierici non solo hanno tradito, ma si sono anche suicidati.
In Francia si è dato spazio a quei detenuti che hanno voluto raccontare le proprie esperienze, si è raccolta la voce di quelle donne o quegli uomini che godono di popolarità (talora non desiderata) perché raccontino quel che hanno visto. Patrick Marest, che da molti anni si occupa di carcere, ha pubblicamente ringraziato quei detenuti eccellenti, o detenuti VIP, grazie ai quali si è fatto in poco tempo quel che non si era riusciti a fare in anni ed anni, grazie ai quali la questione era giunta alla ribalta, con un indubbio e forte vantaggio per tutti gli altri detenuti, non eccellenti e non VIP.
Da noi, invece, si è deriso ed ignorato non solo chi ha voluto denunciare le inumanità sperimentate durante la propria esperienza carceraria, ma anche chi ha sporto documentata e firmata denuncia, alla faccia dell’obbligatorietà dell’azione penale. Si è deriso il VIP e l’eccellente accusandolo di lamentarsi di quel che gli altri già sopportano, come se fosse ingiusto lamentarsi e sano il sopportare. L’Italia incattivita dal giustizialismo non ha trovato orecchie per ascoltare, occhi per leggere, cervello per capire. E così è divenuta peggiore, più sporca, più ipocrita, più becera.
Di rincalzo al libro della Vasseur è giunto un vecchio lavoro di Daniel Gonin, che fu coordinatore dei servizi sanitari penitenziari, e che aveva già descritto quell’universo. Il suo lavoro è stato ripubblicato ed egli ha scritto, nelle tre pagine e mezza che lo introducono, che “tutti i medici che lavorano in prigione hanno l’obbligo deontologico e morale di raccontare quel che vedono nell’esercizio della loro professione”. E, difatti, in Francia, molti medici sono giunti a dare conferma di quel che la Vasseur aveva raccontato. Dove sono i medici italiani che lavorano in prigione? fa loro difetto la deontologia o la morale? o fanno difetto entrambe?
Gonin scrive che “davanti allo spettacolo del quotidiano carcerario, solo l’incredulità è protettrice”. Già, ma quando l’incredulità si ostina a non prendere atto della realtà si chiama stupidità. O complicità.