Sono stato denunciato, assieme al direttore di questo giornale, Arturo Diaconale, da un magistrato di Torino, Marcello Maddalena, che nel frattempo ha fatto carriera ed è divenuto capo della Procura, il quale si riteneva diffamato. Mi hanno rinviato a giudizio e processato.
Due volte condannato, alla fine la Cassazione mi ha dato ragione, dando torto a Maddalena. Se qualcuno vuol dedurne che ciò dimostra il buon funzionamento della giustizia, si sbaglia, per le ragioni che seguono, e che espongo da vincitore, quindi con serenità.
L’articolo “incriminato” è stato pubblicato il 25 marzo del 1997, la querela è del 23 giugno dello stesso anno. L’assoluzione risale a venerdì scorso, 5 marzo 2004. Sette anni! Sette anni per un procedimento senza indagini e senza istruttoria. Una cosa che poteva, e doveva, ragionevolmente risolversi in un paio di mesi. Sette anni nel corso dei quali io sono stato l’imputato, già condannato, sebbene non in via definitiva. Sette anni nel corso dei quali dovevo stare attento a commentare le azioni del Maddalena, perché pendeva un giudizio. Sette anni inutili e persi, già da soli sufficienti a spiegare che la giustizia non funziona.
Ma veniamo al merito. L’articolo era una recensione, dedicata al libro che Maddalena aveva scritto, assieme a Marco Travaglio: “Meno grazia, più giustizia”. Un libro allucinante, firmato il quale, in un paese civile e normale, il magistrato sarebbe stato allontanato dalle sue funzioni. Immediatamente. Perché quello era un libro eversivo, scritto contro le istituzioni e le leggi repubblicane, cosa che oggi riconoscono in molti, da Nordio ad Ayala. Come dimostrai, in un comico processo. Comico? Leggete, prego.
Ricevuta la querela, con Diaconale, scrivemmo un libretto, “Attacco alla libertà”, edito da giustiziaelibertà, nel quale ripubblicavamo l’articolo, inserivamo la querela e spiegavamo il perché non ci saremmo piegati. Per ragioni di tecnica processuale arrivai la processo da solo, e lì, difeso da un Renato Borzone perfettamente a suo agio nella parte del combattente, spiegammo che non avevo nulla di cui pentirmi, che quell’articolo lo avrei riscritto, che, anzi, era alquanto moderato rispetto a quel che pensavo del libro. Pertanto, cari giudici, niente attenuanti e niente panegirici, se è un reato vado a scontarlo in galera.
Qual è, secondo voi, l’unico atto istruttorio necessario in una causa di questo tipo? Leggere l’articolo e leggere il libro. Null’altro. Ma il pubblico ministero, il dottor Alberto Caperna, se lo era risparmiato (come lo capisco!), quindi, letteralmente, nessuno sapeva di cosa si stava parlando. L’unico testo di riferimento era la querela, che, però, difettava dei fondamenti logici.
Il querelante si sentiva offeso perché avevo scritto che non rispettava il sacro principio della presunzione d’innocenza. Dove lo ha letto? Tuonava il pm. Eccoli serviti: pagina 23 del dotto testo: “… la gente non si scandalizza affatto se per un po’ finisce in vinculis una persona che ha commesso reato, uno, insomma, che dopo la sentenza definitiva, si pensa dovrà tornare in carcere.” Roba da pazzi, di un magistrato che scrive una cosa simile il minimo che si posa dire è che disprezza la presunzione d’innocenza.
Lamentava, il querelante, di non avere offeso le istituzioni. Ecco, pagina 30: “.. la nuova norma non è dunque una garanzia di libertà ma di omertà più consona alla cultura delle organizzazioni criminali che a quella di una società che vorrebbe definirsi civile”. Che se non è vilipendio del Parlamento questo, non so cos’altro si deve immaginare. Tenendo anche presente che il Maddalena riceve un regolare stipendio al fine di rispettare le leggi e le istituzioni, non per passare il tempo a disquisire contro lo Stato di diritto.
Potrei andare avanti per pagine, come in effetti feci, in un altro libro, titolato “A maggior gloria di Maddalena”. Ed il titolo lo devo alla sentenza. Già, perché, ad un certo punto del processo di primo grado, il pm sembrava un disco rotto: rivolgeva sempre le stesse domande e riceveva indietro sempre le stesse, inoppugnabili, innegabili e gravissime citazioni del libro maddalenesco, tant’è che il presidente del Tribunale intervenne a fermare il massacro. Insomma, condannarmi per i motivi richiesti da Maddalena era davvero difficile. Ed il Tribunale, allora, mostrò doti di comica fantasia. Stabilì: le cose scritte da Giacalone sono vere, quindi non lo possiamo condannare, ma lui ha anche scritto che Maddalena “si gloriava” nel fare il libro, e questo non è dimostrato. Ergo, condanna. Inoltre, per dare un po’ più di sostanza alla cosa, nelle motivazioni, relativamente alla questione della presunzione d’innocenza, si sbagliava riferimento al libro (si sbagliava citazione, nonostante l’avessi ripetuta più volte), facendo sembrare eccessiva la mia critica.
Condannato, allora, perché Maddalena non si gloriava. E non è comico, tutto questo? In appello assistemmo alla replica. Condannato, perché del gloriarsi non c’era traccia. Praticamente è come se scrivessi di un chirurgo che è un macellaio, giacché ammazza quelli che opera, magari godendo. Quello mi querela, ed io dimostro che nessuno dei pazienti è mai sopravvissuto. Fine? No, perché non c’è la prova dell’orgasmo. Così scrissi “A maggior gloria di Maddalena”, chiarendo ulteriormente, dopo la condanna, che non intendevo fare alcun passo indietro.
La settimana scorsa la Cassazione ha posto fine alla faccenda, annullando senza rinvio la sentenza di secondo grado, a sua volta copiata da quella di primo grado. Tutto bene? No, assolutamente no.
I processi per diffamazione intentati da magistrati non possono essere decisi da magistrati colleghi del querelante. Io mi rifiuto di credere che i componenti di ben due collegi giudicanti (di primo e secondo grado) siano men che capaci di intendere e leggere, quindi non posso giustificare una condanna che si basa sull’omissione dei riferimenti corretti e sul pregiudizio. E noi tutti, cittadini italiani, dobbiamo essere sicuri che anche la decisione della Cassazione sia frutto di una lettura dei testi, e non di diverse opinioni interne al corpo della magistratura. Insomma, un magistrato non deve potersi appellare al giudizio dei colleghi. Il meccanismo deve essere profondamente riformato, altrimenti si mette a rischio l’esercizio della libertà.
Per parte mia lo avevo annunciato nelle vesti d’imputato: potete condannarmi, ma non piegarmi, quel che ho scritto lo riscrivo. Ed eccomi qui, appunto. Con tanti saluti alla gloria del Maddalena.