Giustizia

Magistrati e politica

Magistrati e politica

Dietro il titolo un po’ oscuro, “Costituzione e giurisdizione”, la Fondazione Giovanni Spadolini ha organizzato una due giorni di dibattito attorno al disegno di legge presentato dai senatori Antonio Del Pennino e Luigi Compagna, il che ci aiuta a capire che il tema vero era il rapporto fra magistratura e politica. La Fondazione porta il nome di un Maestro, attento, attentissimo al segno dei tempi, a fiutare il senso della storia, cercando gli indizi del cambiamento anche nelle cose meno evidenti, o apparentemente meno rilevanti.

Non è senza significato, quindi, che la Fondazione inviti oggi i due senatori, oltre a politici come Bobbio, Capezzone, Maccanico e Pecorella, ed assegni le relazioni a uomini del calibro di Rebuffa, Patrono e D’Auria. Non è senza significato perché dieci anni fa la stessa Fondazione organizzò una giornata di studi chiamando a parlare i Caselli ed i Maddalena. Non fu, quella, una scelta originale, e men che meno coraggiosa, fu un supino allinearsi ai tempi dell’inciviltà giuridica, fu il cedere le armi al peggio che avanzava. Le maddalenesche pagine di “Meno grazia più giustizia” cosa mai hanno a che spartire con la tradizione de La Nuova Antologia? Di questo lo storico Giovanni Spadolini avrebbe scritto, ritrovando il gusto profetico del passato.

Non si può dire che il convegno romano abbia segnato molti consensi a favore del disegno di legge, appuntandosi molte critiche alla proposta di rendere elettivi i vertici degli uffici giudiziari. Al contrario, invece, diversi e significativi consensi ha registrato il capitolo relativo alla riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, riconoscendo i convenuti che quell’organismo è oramai politicizzato al punto da renderlo del tutto dissonante rispetto ai compiti ed alla funzione assegnatigli dalla Costituzione. Peccato, però, che tale diversità di giudizi non sia molto sensata, e che, semmai, proprio nel proporre le cose assieme sta il valore, positivo, dell’iniziativa presa da Del Pennino e Compagna.

Il punto è questo: nel nostro sitema di diritto il giudice dovrebbe essere un potere del tutto neutro, la semplice voce delle leggi e, proprio per questo, la sua autonomia deve essere totale. Questo sulla carta. Nella realtà le cose non solo sono assai diverse, ma non c’è alcuno strumento utilizzabile affinché tornino ad essere come dovrebbero.

Non è possibile, come ha sostenuto Rebuffa, perché quello schema è figlio di tempi diversi e distanti. Non è possibile, più materialmente, perché non disponiamo più di una categoria di magistrati che siano mentalmente preparati ad essere quelli di quei tempi là. E, allora, che si fa?

Oggi noi sappiamo per certo che l’obbligatorietà dell’azione penale consegna al magistrato inquirente una totale autonomia nella scelta di quali indagini fare, di quali indagati preferire, di quali processi istruire ed in che tempi. Un potere enorme, e senza controlli. I magistrati giudicati si prestano spesso a sentenze discorsive e saggistiche, destinate più a soddisfare il desiderio di scrivere, e riscrivere, la storia che non ad amministrare giustizia. E se è vero che i tre gradi di giudizio funzionano ancora per impedire il completo deragliamento, è non meno vero che i tempi della giustizia sono tali che l’onore ed i beni dell’imputato vengono talora restituiti ai nipoti. E tutto questo avviene nella più completa irresponsabilità, giacché nessuno risponde di niente e, anzi, come ha opportunamente sottolineato Compagna, può vantarsi di scrivere la storia con le inchieste e, al tempo stesso, non gestire i processi che da quelle inchieste scaturiscono (e che quelle inchieste smentiscono).

Qualcuno ne risponda, dicono i presentatori, e pensano ai capi degli uffici. Li si elegga o li si nomini, propongono. E la loro proposta è del tutto in linea con il dettato costituzionale.

E qui molti storcono la bocca, esteticamente infastiditi dall’idea che un procuratore capo debba farsi votare e, quindi, debba prima presentare le proprie idee ed i propri programmi. La campagna elettorale, questo il senso del disgusto, è cosa bassa, ed anche un po’ sporchina. A sentirli sembra d’essere capitati in un circolo di nobili ancora increduli innanzi alla risalita garibaldina. Eppure il loro ragionamento avrebbe un fascino (non ne aveva, forse, il principe di Salina?), se non fosse che molti magistrati italiani sono in continua ed ininterrotta campagna elettorale, con l’aggravante di non dovere essere votati. Parlano ai giornali, vanno in tv, argomentano circa le leggi ed il lavoro del legislatore, ma siccome non c’è campagna elettorale non si dà mai la parola a chi, da magistrato, la pensa diversamente, e siccome non si vota ciascuno di questi tribuni s’erge a rappresentante del tutto. Quindi, c’è poco da storcere la bocca: la proposta Del Pennino-Compagna è più vicina e rispettosa della dignità del ruolo dei magistrati, di quanto non lo sia la realtà.

Ecco un bel terreno sul quale La Nuova Antologia potrebbe muovere passi all’altezza della sua storia: indagare, da una parte, il significato della giustizia, come oggi è percepita, quanto ancora si creda al mito della “verità” e quanto ad esso si sacrifichi l’equità e la regolarità, in altre parole, quanto la pretesa sostanza fa ancora premio sull’unica regola certa, ovvero la forma; e, dall’altra, indagare il ruolo del magistrato, come oggi viene vissuto da chi l’esercita da tempo, dai giovani al debutto, dai cittadini che alla giustizia si rivolgono. Sarebbe un’aratura importante, dal profondo significato culturale e di alta caratura etica. Perché i tempi son cambiati, apparentemente migliorati, ma nulla ci autorizza a credere che la malattia sia stata debellata. Anzi.

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