Il travaglio dei rapporti fra politica e giustizia, o, più precisamente, fra politica e magistratura, con la progressiva invadenza del settore giudiziario in materie e decisioni che erano considerate di spettanza politica, è un fenomeno che riguarda tutte le democrazie occidentali.
Certo, noi italiani lo abbiamo vissuto nel modo più traumatico e disordinato possibile, finendo con il conoscerne anticipatamente tutti i risvolti negativi e pericolosi. Ciò non toglie che si tratta di un fenomeno non limitabile dentro i confini nazionali, ed osservarlo con gli occhi degli altri ci aiuta a capire quel che è successo da noi.
In tal senso torna utile l’ultimo libro di Alain Minc, “Au nom de la loi”, edito da Gallimard (ne sforna uno all’anno e sui temi più diversi). Come spesso capita ai cugini francesi, Minc considera la degenerazione italiana qualche cosa di orribile ed irripetibile. Sembra pensare : siamo messi male, ma mai quanto gli italiani. Ma basta leggerlo per rendersi conto che il primato italiano è tutt’altro che imbattibile, anche perché il male più grosso è il medesimo.
Certe cose hanno il sapore antico, e già Napoleone poteva parlare del giudice d’istruzione come dell'”uomo più potente di Francia”. Ma Minc propone un’analisi meno legata alla tradizione e più attenta a quel che succede oggi. Gli anni ottanta ci hanno portato un rafforzamento del mercato economico, fino a parlare di una sua centralità; ebbene, il mercato economico senza il rispetto del diritto è come la giungla, e per farsene un’idea basterà guardare alla Russia di oggi; il diritto senza il mercato è il regno della burocrazia e dell’immobilismo. Nelle società equilibrate, in quelle di sperimentata democrazia, allora più il mercato avanza più avanza il diritto; più il capitalismo si espande, più si espande il diritto e, quindi, il potere dei giudici.
E’ un problema che le forze della sinistra democratica e socialista, in Europa, ben conoscono : il cessare delle pulsioni pianificatorie, il richiedere meno vincoli, meno lacci e lacciuoli che frenano le libertà economiche, si accompagna alla necessità di far crescere i controlli e le garanzie. Questo, però, porta ad un minor ruolo della politica ed un maggior peso del controllore. E mentre nei sistemi anglosassoni il controllore ha spesso natura particolare (le autorities, ad esempio) ed è di nomina politica, in quelle latine tale ruolo finisce con l’essere coperto dai magistrati, e sempre più spesso dai magistrati del penale. Ed ecco una delle radici del male.
Sopra le radici, fuori terra, cresce però una lussureggiante vegetazione che soffoca i diritti civili ed individuali, che sopprime le garanzie, che trasforma la giustizia in giustizialismo. Cosa rende possibile questa degenerazione? La risposta di Minc ci è davvero molto familiare.
“Tutto si giuoca nell’alleanza di ferro raggiunta fra il giudice, i media e l’opinione pubblica. Attraverso questa la democrazia rappresentativa, figlia della grande Rivoluzione, passa il testimone alla democrazia dell’opinione pubblica, figlia bastarda della seconda rivoluzione”. Magistrati e giornalisti, in un certo senso, si sono formati e liberati insieme. I magistrati sindacalizzati, figli del ’68, libertari ed anticapitalisti, ed i giornalisti cresciuti su quel medesimo terreno, hanno molto in comune, e c’è fra loro una grande complicità. Questo gruppo di spinta finisce con il trasformare gli altri praticanti le stesse professioni : i magistrati non politicizzati subiscono il fascino dei colleghi più aggressivi e, come loro, sono assetati di notorietà (il nostro Cuva, ad esempio); i giornalisti non politicizzati scimmiottano il giornalismo americano, il giornalismo di contropotere. E, ancora una volta, si crea complicità.
In questo modo il magistrato dell’accusa, che abbia imparato ad utilizzare i media come cassa di risonanza, diventa un personaggio di una potenza illimitata. Così l’inizio di un’inchiesta è già una condanna, e la presunzione d’innocenza diviene niente più che un fastidioso e tracurabile cavillo, una figura retorica. La sentenza del Tribunale, quando arriverà, sarà solo una conferma della condanna già stabilita, o una sorta di risarcimento post mortem , di nessuna importanza comunicativa.
La coppia giudice-giornalista resterà forte fino a quando l’opinione pubblica lo vorrà. Non il consenso dei cittadini, non una democratica decisione, ma solo fino a quando lo vorrà la pubblica opinione : animale evocato e non domato, privo di canali democratici con i quali conoscerne i reali orientamenti. E la pubblica opinione lo vorrà fino a quando la coppia fornirà lo spettacolo dei potenti che vengono umiliati.
Non stupisce, dunque, che forti di questa posizione i magistrati dell’accusa reclamino sempre maggiore autonomia ed indipendenza. Già, ma Minc si domanda : da che cosa trae legittimità questa indipendenza? Non dall’elezione, non dal consenso popolare, non da niente che abbia a che vedere con i sistemi democratici. L’indipendenza senza responsabilità, senza fonte di legittimità, diviene solo un delirio corporativo ed autoreferenziale.
La democrazia, però, non tollera poteri che non abbiano contropoteri. La democrazia non tollera poteri che non abbiano controlli e garanzie di contrappeso. Per questo la coppia giudice-giornalista è un nemico della democrazia.
Così, come ci è capitato leggendo Tapie, anche leggendo Minc abbiamo riconosciuto l’Italia nei mali della Francia. Segno che sulle storie e le strutture istituzionali dei due paesi pesa una malattia più forte, più estesa, più pericolosa.