Al giudice Thokozile Masipa farei un monumento. Perché nel modo in cui si è giunti alla sentenza riguardante Oscar Pistorius (non ancora completa), nel modo in cui il giudice ha costruito il suo giudizio, c’è la grandiosa superiorità culturale del sistema di common law. Un sistema nel quale non è lo Stato che giudica, perché lo Stato accusa. Il giudice è l’arbitro di uno scontro, fra due parti in cui nessuna ha maggiore legittimità o forza dell’altra. Arbitro fra la pretesa punitiva, a tutela della collettività, e la difesa dell’individuo, a tutela della libertà. Non c’è dominio, se non della legge. Certo: Pistorius ha ammazzato, così come aveva ammazzato O. J. Simpson. Ma il giudice, al contrario che nel nostro sistema, non deve dare corpo a un proprio “libero convincimento”, non deve inseguire una inagguantabile verità, deve dirigere lo scontro e accertare che le prove corrispondano alle accuse. Nella lunga disamina finale (da riascoltare, con ammirazione) il giudice Masipa ha messo in luce che “l’accusa non è riuscita a dimostrare” la premeditazione e la volontarietà. Attenzione, perché è decisivo: non che esistano o meno premeditazione e volontarietà, ma che sono state dimostrate e provate. Sicché il resto delle deduzioni logiche sono inutili. Buone per il bar, non per un tribunale.
Capisco lo sgomento di alcuni. Capisco l’amara ironia di Selvaggia Lucarelli. Ma le loro argomentazioni possono valere nel mondo del “non poteva non sapere”. Che è un mondo in cui lo Stato incarna il bene e il cittadino può essere sede del male. Pessimo mondo. Da Pretoria ci è giunta una lezione di civiltà: conta solo quel che chi accusa riesce a provare, mentre il giudice non è lo Stato, ma il solo che può impedire che il cittadino sia un suddito. Il resto è fuffa. Questo elimina gli errori? Neanche per idea, nessun sistema li azzera. Ma anche quando sbaglia, il sistema di common law lo fa in un trionfo di giustizia e diritto. Mentre da noi si tifa per il risultato, si vuole che la sentenza prenda atto della verità evidente, sebbene non provata. Capita, così, che anche quando indovina può umiliare il diritto e la giustizia.
Quel che è solare può abbagliare. E’ vero che alcuni messaggi telefonici mettevano in evidenza che l’assassino (perché tale è stato giudicato) era un geloso forsennato. Ma questo, paradossalmente, toglie credibilità alla premeditazione. Avesse agito pensandoci e volendo ammazzare, probabilmente avrebbe spedito messaggi di tono opposto. Masipa, quindi, dice che quei messaggi non provano nulla, se non “variazioni d’umore presenti in una qualsiasi normale relazione”. Considero la gelosia una forma di alterazione mentale, un sentimento d’inferiorità che può trasformarsi in aggressività maligna. Ma in tribunale si deve dimostrare il nesso fra quell’umore e l’assassinio, contando zero la deduzione psicologica. I testimoni sono tali se dicono quel che sanno e portano elementi cogenti, altrimenti sono chiacchiere. L’avere usato la pistola in un ristorante è un reato (tanto che per questo è stato condannato), ma non è la prova di una cosa del tutto diversa: avere avuto intenzione di uccidere. Dimostra che sei uno stronzo, non un premeditatore. Tutto questo era chiaro anche all’accusa che, difatti, concludendo, aveva puntato su una tesi diversa: chi spara in un bagno, ad altezza d’uomo, sa di ammazzare. Masipa argomenta: infatti lo condanno, ma non avete dimostrato quello di cui lo avete accusato.
Scrive Lucarelli: “peccato che il giudice non abbia chiarito cosa volesse fare Pistorius, se non uccidere”. Esatto, non lo ha chiarito. Perché non deve. Non è il suo mestiere. Solo i pazzi credono di possedere la verità e di poterla chiarie agli altri. Un giudice serio, in un sistema funzionante, accerta se ci sono le prove. E “l’accusa non è riuscita a dimostrare”. Tutto qui. Ed è veramente tutto.
Osservazione a latere: esiste l’omicidio, con relative aggravanti e attenuanti, non il femminicidio. Quest’ultimo è un segno d’alticcia legislazione. Se è la femmina che ammazza il maschio è meno grave? E’ grave uguale. Pistorius è maschio, bianco, ricco e privilegiato. Masipa è femmina, nera, fu povera e perseguitata. Ragione in più per farle un monumento. Mentre chi crede che, sol per questo, avrebbe dovuto sorvolare sulle debolezze dell’accusa (sostenuta da un procuratore che ha sbagliato, non dalla “giustizia”, come si dice da noi, non dal bene o da un sacerdote della verità), a quel monumento dovrebbe far frequente visita.
Dietro questa sentenza c’è la cultura di un mondo che non idolatra lo Stato e non confonde le sentenze con il buon senso comune. Quanta lontananza dai magistrati italiani che dicevano: anche se il processo non è ancora manco cominciato, la condanna pubblica è già stata emessa. Invidio i sistemi in cui i giudici si chiamano Masipa.
Pubblicato da Libero