Vista da fuori l’Italia sembra un’arena di lottatori nel fango. Sembra che a nessuno importi nulla del danno arrecato non dico all’immagine, ma direttamente ai nostri interessi. Sembra che a nessuno importi un fico secco dei tantissimi italiani che si distinguono ed eccellono in giro per il mondo, cui la sera s’infligge il supplizio di spiegare cosa diavolo succede nel loro Paese. I più ottimisti dicono: anche negli Stati Uniti il Presidente è stato costretto a parlare di quel che avvenne sotto al tavolo dello studio ovale. E’ vero, ma il tutto durò qualche mese, fu comunque un danno, colpì la sua credibilità (anche perché non era credibile), e tutto si chiuse con la suturazione della ferita giudiziaria e l’inesistenza di motivi per procedere. Noi andiamo avanti da diciassette anni.
I brasiliani che si tengono Cesare Battisti (e lo fanno per mettere in difficoltà i rapporti con le nostre imprese, non certo per amore d’un personaggio spregevole quanto pochi altri) possono sempre dirci: non ci siamo mai permessi di descrivere la vostra giustizia con parole così colorite quali quelle utilizzate da chi vi governa. Tesi strumentale, ma non priva di fondamento. La stampa anglosassone pubblica quel che giunge dai festini, ma sottolineando che la fonte sono gli uffici giudiziari. Come a dire: un Paese incivile, ove rivolgersi alla giustizia serve solo ad esporsi al pubblico ludibrio. Da noi sono tutti pronti a far le prime pagine per le inchieste più inverosimili, in cui costumi debosciati vengono descritti come (improbabili) crimini, ma la notizia che i delinquenti condannati se ne vanno a spasso perché il signor giudice impiega più di quattro anni per redigere la sentenza finisce nelle pagine di cronaca, ci vive un solo giorno e poi se ne ricorda solo il citato criminale, che ci fa marameo a tutti.
Silvio Berlusconi ha le sue responsabilità, ne ho già scritto: certe condotte non sono compatibili con il posto che occupa, né si può pensare che un fidanzamento sia notizia rilevante per un Paese che ha bisogno d’essere governato. Ma la prima sua responsabilità è quella di non avere puntato subito, dopo la vittoria elettorale, ad una riforma profonda e radicale della giustizia, che la faccia somigliare a quella dei Paesi civili. E se il capo della maggioranza non è esente da colpe, che dire dei tanti capi e capetti dell’opposizione? Sono diciassette anni che cercano di mettere fuorilegge un avversario politico che non riescono a battere, sono tre lustri che puntano sulle procure perché riescano dove loro non sono capaci. Se avessero sale in zucca, se avessero un’idea, magari sfumata, di cosa sia l’interesse nazionale avrebbero provveduto loro a proporre la riforma necessaria, facendo la parte non solo delle persone responsabili e ragionevoli, ma anche di quelli abbastanza sicuri di sé da non dovere scommettere tutto sull’abbattimento dell’avversario.
Nell’insieme il sistema politico non è stato capace d’altro che continuare la lotta nel fango, inzaccherandoci tutti di schizzi che meritiamo solo nella misura in cui consideriamo sopportabile un tale spettacolo. Dal 1994 in poi s’è divisa l’Italia in tifoserie forsennate, disposte a tutto, pure a segare il ramo dove sono sedute, pur di vedere crollare l’altra curva. Il costo di tale comportamento è elevatissimo, e il più grande colpo lo si è portato alla democrazia: a che serve votare se a chi vince viene impedito, con ogni mezzo, di legiferare e governare?
Coltivo la speranza che le ultime vicende facciano accendere il lume dell’orgoglio e dell’interesse nazionale. Resto convinto che c’è un’altra Italia, che non merita d’essere strapazzata nel fango.