Sono stato e rimango contrario al varo di una amnistia, e lo sono, non si farà fatica a crederlo, da un punto di vista radicalmente diverso da quello dei seguaci delle procure e dei giustizialisti un tanto al chilo. Questo non mi impedisce di osservare la sciocca superficialità con cui si è tornati a parlarne.
La commedia, naturalmente, è sempre la stessa : le voci che richiedono l’amnistia devono essere ricondotte a qualche imputato, magari a Silvio Berlusconi; mentre l’indignazione trova la sua giusta sede nelle parole dei magistrati della procura di Milano. Rappresentazione, questa, sempre più stanca e grigia di una giustizia che avrebbe Tangentopoli come suo primario problema. Allora, cerchiamo di dire una cosa chiara : Tangentopoli e l’amnistia non sono parenti, nel senso che nessuna amnistia potrà essere il colpo di spugna su Tangentopoli. Mi spiego.
Nemmeno i più sfegatati sostenitori dell’amnistia pensano che essa possa essere varata domani, si pensa, invece, di poterla varare dopo che sia stato compiuto il percorso delle riforme istituzionali. E’ questo il senso della “prematurità” di cui hanno parlato in diversi, oltre all’autorevole Luciano Violante. Ciò significa che la stagione dell’amnistia potrebbe essere individuata, ad essere ottimisti sul processo riformatore, verso la fine del 1999. A quel punto, però, i reati di Tangentopoli saranno tutti in prescrizione, e, quindi, per mutuare il linguaggio che non è nostro, l’amnistia potrà essere utile a chi si fosse macchiato di reati similari in periodi a noi più vicini.
Né si può pensare che l’amnistia sia utile ad affrontare altri e più gravi problemi, giacché estenderla ai reati di associazionismo mafioso è un’idea che non verrebbe neanche al governo Riina.
Su tutti questi fronti, pertanto, sia su quello meno grave di Tangentopoli, che su quello più grave dell’associazionismo mafioso, gli indagati e gli imputati che si proclamano innocenti non è l’amnistia che chiedono, ma il rispetto delle regole e delle procedure, che, meglio non dimenticarlo, sono state e continuano ad essere calpestate. Ciò che un innocente chiede non è né il perdono, né l’oblio, bensì giustizia. Ciò che un innocente teme di non avere, in Italia, è proprio la giustizia.
(Apro una parentesi perché nelle cose gravi ci sono sempre elementi esilaranti, come il buon Piero Ottone che per anni è stato il garante del quotidiano più vicino al più becero giustizialismo, oltre che protagonista dei processi di piazza, delle condanne anticipate e del massimo disprezzo per la presunzione di innocenza il quale, adesso, apparecchia lezioni di stile e deontologia contro i processi di piazza. Ma mi faccia il piacere!)
Diverso, ed assai più serio, sarebbe il discorso dell’amnistia se impostato sulla base delle riflessioni che, da ultimo, ha esposto Adriano Sofri, nel suo “A doppia mandata”. In questo caso i problemi da affrontarsi sarebbero tre : a) non colpire con severità comportamenti che erano e sono diffusi in quanto considerati normali; b) prendere atto dell’inumano sovraffollamento delle carceri; c) prendere atto dell’inutilità del carcere laddove non vi siano problemi di sicurezza collettiva da contemplare (ed è, quindi, inutile tenere dietro le sbarre persone che, pur colpevoli dei reati contestati, non hanno mai fatto del male a nessuno).
Se così affrontato, allora il problema dell’amnistia diviene serio, e morde direttamente tanto la pubblica ipocrisia, quanto il tabù del carcere. Diviene pragmatico ed idealistico al tempo stesso. Se di questo si parlasse, sarebbe un bene per tutti. Ma non è di questo che si sta parlando.