Giustizia

Ostativo

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Ergastolo significa “a vita”. Si può essere condannati all’ergastolo solo per avere ucciso (e non in tutti i casi)

Talora si resta prigionieri della propria propaganda e per uscirne, una volta assunta la responsabilità di governare, si prova a imboccare la porta dell’ovvio. Sicché si riparte da quel che vedemmo quando la Corte costituzionale stabilì l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo.

La Corte aveva avuto pietà. Forse sbagliando. I ritardi del legislatore sono talmente tanti – prodigo di leggine e con il braccino corto sulle riforme – che la Corte aveva accordato tempo, solo annunciando che, in assenza di fatti, sarebbe arrivata l’abrogazione. Perché l’ergastolo ostativo è incostituzionale, nonché contrario a un paio di trattati internazionali che regolano i diritti umani. Quando aveva funzioni di commentatore e giurista, l’attuale ministro della Giustizia, Nordio, lo definiva «un’eresia». Sarebbe strano vederlo nei panni dell’eresiarca.

Ergastolo significa “a vita”. Si può essere condannati all’ergastolo solo per avere ucciso (e non in tutti i casi). Hai preso una vita, darai la vita. Che senza pena di morte significa carcere a vita. Già in questo la pena non è proprio coerente con il dettato costituzionale, perché la pena ha un ruolo remunerativo, correlato al danno arrecato, ma deve anche «tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27). Quel «tendere» lascia margini, non mancando i non rieducabili. Se la pena è a vita, però, non significa che si debba necessariamente crepare dietro le sbarre. Il detenuto vi si trova da ventisei anni, si valuta non abbia più pericolosità sociale e la rieducazione ha funzionato; allora si potrà deciderne, sempre a cura del magistrato, la liberazione anticipata, come già gli erano stati concessi dei permessi, magari un lavoro fuori e rientro in carcere la sera. Non ha diritto automatico ad avere quei benefici, ma ha il diritto di chiederli. Il 4bis della legge sull’ordinamento penitenziario (leggetelo, anche solo guardatelo, per capire come si legifera, con i comma quinques…) – considerato incostituzionale – nega non il primo diritto, che non esiste, ma il secondo: chi è condannato all’ergastolo ostativo non può chiedere alleggerimenti della pena, dovendo prima avere collaborato con la giustizia.

La pietà della Corte ha prodotto due cortocircuiti: 1. quella che è materia parlamentare diviene, per la fretta, governativa; 2. la destra contraria alle depenalizzazioni e la cui propaganda considerava la civiltà della pena un cedimento ai criminali, avendo scelto un ministro della Giustizia che la pensa all’opposto ora si trova questa roba fra le mani.

È evidente, non solo per l’ergastolano, che se hai legami attivi con organizzazioni criminali i permessi te li scordi. Conservi la tua pericolosità. Non per trastullo la decisione spetta al magistrato e non a un computer che computa i tempi. L’errore consiste nell’avere scritto che per determinati reati si possono concedere benefici «solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia». Perché può ben esistere il caso di chi ha ammazzato in collaborazione con altri, trent’anni prima, si è sempre rifiutato di indicare i complici e comunque ha perso pericolosità sociale. Mentre può esistere chi ha fatto i nomi di tutti i rivali, s’è tenuto quelli dei veri soci ed è pericolosissimo. E, ancora, la decisione spetta al magistrato.

Quindi l’idea che cancellare l’ostativo sia un “liberi tutti” è falsa. Come è falso che sia un piacere agli assassini. Lo è, semmai, alla civiltà del diritto. Ed ecco la via d’uscita, che porta in un vicolo buio: cancellare la condizione della collaborazione, inaccettabile e incostituzionale, mantenendo l’ovvio della pericolosità. Solo che si torna alla casella di partenza: quali i criteri per la pericolosità? Perché se ci si infila la non collaborazione si sta pestando l’acqua nel mortaio.

Morale (si fa per dire): la sola riforma sul tavolo, quella Cartabia, è stata rinviata (di poco, ma rinviata) mentre questa è una pezza. Nordio era contro le pezze. Benvenuto nel difficile mondo del governare.

Davide Giacalone, La Ragione 1° 2022

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