Quello scritto da Gianni Parisi, dirigente comunista siciliano, accusato di mafia, prosciolto, è un libro impressionante. Fa accapponar la pelle il violento cozzare della sua esperienza personale contro i pregiudizi ideologici, i dogmatismi di partito, la presunzione di superiorità di cui non si è liberato.
Parisi è passato nelle fiamme e nella melma del giustizialismo, ne ha assaporato la potenza distruttiva, ma non è riuscito a tracciarne un profilo politico. Le sue contraddizioni sono palesi, ma preziose, perché sono la cartina al tornasole del cortocircuito politico e culturale che ha fulminato la sinistra.
Il suo “Storia capovolta”, edito da Sellerio, ha il grande merito di mettere sotto il naso del lettore le fumanti rovine di una sinistra comunista tanto orgogliosa quanto di se stessa inorridita. Un libro, questo, che assai più delle melassosità veltroniane, dei cilici fassiniani, delle acutezze dalemiane, sarà utile a chi vorrà ricostruire una sinistra moderna, facendo un gran servizio alla politica italiana.
Raggiunto da un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa, Gianni Parisi vede il mondo crollargli addosso, sente la vergogna di un’accusa che pur ritiene del tutto ingiusta (così come si dimostrerà), fa i conti con le ipocrisie dei sostenitori, con la vigliaccheria degli scantonatori, con la forza mediatica degli accusatori. Gli rimangono vicini la famiglia e tanti “compagni”, ma è evidente che non gli basta: lui vuole essere pulito, così come si sente. Comincia a scrivere, ripercorrendo una vita, dagli studi a Mosca alla milizia politica in Sicilia. E qui, come una moderna sonda, introduce una telecamera nel corpo di una politica che, francamente, merita poco rispetto.
Parisi è un cronista attendibile, molto attendibile. Non lo conosco personalmente, mi piacerebbe, ma sono palermitano anch’io, e quella città la riconosco nelle sue pagine, anche nelle mostruosità dell’orlandismo. Va preso sul serio, Parisi. Lo merita.
Furono giacobini, scrive Parisi, gli attacchi di Orlando e Pintacuda a Giovanni Falcone. Secondo me furono solo beceri, miserabili, ma il giacobinismo, nell’accezione contemporanea del termine, ci sta tutto. Un eroe, Falcone, un magistrato capace, scrupoloso, non uno che da retta al primo pentito che passa, non uno che infanga gli innocenti. Lo scrive Parisi, ed ha ragione. Ma come fa Parisi, poi, a saltare un passaggio rilevante della storia sicialiana? Furono i compagni di Parisi a far fuori Falcone. Si ricordi di Violante, si ricordi della Paciotti, tutti e due parlamentari del suo partito, tutti e due impegnati nella battaglia, vincente, per isolare Falcone ed impedirgli di lottare contro la mafia. Si, certo, ci furono anche le sguaiatezze di Orlando, le sue ripugnanti apparizioni televisive. Ma chi fu artefice e chi strumento? Un vecchio comunista è tenuto al realismo politico, alla freddezza d’analisi, non è questo che insegnavano a Mosca? Ed allora Parisi non può farsi lo sconto, non può far finta di niente, ha il dovere di fare i conti con i mostruosi errori (errori?) che il suo partito commise.
Si lamenta, Parisi, per le pur difensive parole che gli dedicò Napoleone Colajanni, il quale, in sintesi, sostenne: che Parisi abbia aiutato i mafiosi non ci credo nemmeno se lo vedo, ma ciò non toglie che vi erano esigenze di finanziamento illecito del pci (poi pds, poi ds), cui io stesso ho partecipato. No, dice Parisi, io non ho mai concorso. E va bene, non c’è motivo di non credergli. Dal punto di vista penale nulla può essergli rimproverato. Evviva. Ma dal punto di vista politico? Il non essere personalmente responsabile di un’azione rende il dirigente politico automaticamente incolpevole di un costume che ha agevolato il suo partito? Certo che no, anche questo, a Mosca, era piuttosto chiaro.
Parisi fa benissimo a difendersi, e la sua innocenza è certamente adamantina, ma il suo essere dirigente politico esce umiliato dall’avere imboccato una simile via d’uscita. E che diamine, il suo compagno Gianni Cervetti, compagno di partito e di studi moscoviti, ha scritto cose piuttosto ineludibili circa i canali di finanziamento del pci. E quel finanziamento è servito a tenere in piedi il partito di tutti i comunisti, Parisi compreso. Vuol riconoscerlo, o no?
Non può. Non può non perché non ne abbia il coraggio, al contrario, ma perché si rende conto che, facendolo, cascherebbe tutta l’illusione che ancora regge il suo incubo politico. Già, perché il giudiziariamente danneggiato e perseguitato Parisi capisce bene che casi come il suo si ritrovano anche “dall’altra parte”, fra i partiti non comunisti, e lo scrive, con onestà. Ma deve continuare a ripetere che i comunisti erano diversi e migliori, deve continuare a credere che gli equilibri democratici crollarono sì per i colpi del giustizialismo, ma, prima di tutto, per “un sistema putrescente contro cui si ergeva la reazione popolare e la rivolta morale”. Era putrescente quel sistema che non ammetteva che il pci fosse l’unico partito ricco e strutturato? Ed in che consisteva la “reazione” (termine appropriatissimo) popolare, visto che alle ultime elezioni politiche regolari, nel 1992, la maggioranza degli elettori aveva votato per le forze di governo? Una maggioranza che non fu mai più raccolta, né dal Polo né dall’Ulivo.
Parisi sente tutto il dolore di questa contraddizione, e giunge al cuore della questione giustizialista facendo esplodere l’irrazionalità delle tesi che ancora si sente costretto a sostenere. La magistratura è sana, è bella, le azioni delle procure hanno migliorato l’Italia. Si, certo, ci sono state delle esagerazioni, delle infami spettacolarizzazioni, ma è bene che quel processo vada avanti. Accusare lui, Parisi, è stato un errore con il quale alcuni magistrati hanno “delegittimato la magistratura”, che, però, ha tanti meriti. Ma è roba da pazzi. Parisi impazzisce appresso all’impossibilità di conciliare la dottrina di partito con la sua esperienza personale. Non è forse questa la drammatica eredità del comunismo, la lancinante condanna che ha annientato tanti comunisti? Ma lui non può prenderne atto, lo capisce, ma non vuole prenderne atto, perché sull’altro piatto della bilancia c’è la sua vita, la sua vita di comunista. Meglio quella della verità.
Ve ne è impressionante conferma in due periodi che si trovano in due pagine adiacenti: “?. abbiamo deciso al Partito come nostro comportamento di fronte ad indagini giudiziarie a nostro carico di non gridare ai complotti”; una pagina dopo: “.. chi aveva ordito questa macchinazione ?”. Ma Parisi sa, e lo racconta descrivendo il suo incontro con Violante, che, con indicibile perfidia, lo paragona ad Andreotti. Ma Violante è un “compagno”, e la schiumante, giustificata, sacrosanta rabbia di Parisi deve placarsi, innanzi al più alto interesse del partito.
Ha ragione Parisi, ha ragione a scrivere che non solo la sinistra speculò sugli effetti del giustizialismo. Ha ragione a ricordare le mostruosità leghiste e le gazzarre fasciste. Ha ragione a ricordare che la stessa forza italia occupò lo spazio liberatosi con il crollo dei partiti democratici. Ma se all’inquisito Parisi va tutto il nostro affettuoso pensiero, al politico Parisi suggerisco di rimettersi al tavolo e di rendere un vero, grande servizio alla sinistra: descrivendone la fuga dalla civiltà, dalla responsabilità, dal diritto e dai diritti, la viltà di chi ha bisogno di nascondere a se stesso la realtà.