La vicenda Parmalat non è di quelle destinate a tramontare in fretta, anche se quel che d’importante c’era da sapere lo sappiamo già, grazie alla maledizione lanciata dal capo contabile.
“Vi auguro una morte dolorosa”, ha detto ai giornalisti. Cattivo gusto? Arroganza? Qualcuno si mostra scandalizzato, la Repubblica ne ha fatto un titolo. E lo scandalo c’è: in questo malandato Paese le leggi non servono a niente.
Ma sì, il capo contabile, il signore di cui neanche faccio il nome, perché tanto è irrilevante, perché prima dell’arresto lo conoscevano solo i suoi familiari, perché è un cittadino da considerarsi innocente fino a sentenza che dimostri il contrario, lo abbiamo visto tutti: trascinato in ceppi, scaricato dal cellulare, spinto da tre agenti della Penitenziaria, nel mentre copriva le manette con il cappotto, poi cercava di coprirsi il volto, quindi s’accorgeva che coprendo il volto scopriva le manette, il tutto mentre nessuno dei poliziotti riteneva di dover dire una parola ai giornalisti, nel mentre lo sciame dei fotografi gli correva dietro, fino all’insulto con augurio di morte e le porte, a vetri, che gli si chiudono alle spalle. Una domanda: ma non si era approvata una legge che proibiva di riprendere i cittadini in manette?
Ma la legge si applica solo a tutela dei vincenti, dei forti, di quelli che devono avere ragione. Chi ha truccato i conti Parmalat e chi ha inseguito l’uomo in ceppi hanno una cosa in comune: sono disposti a violare la legge, pur di trarne vantaggi. Ieri l’evidenza della truffa Parmalat veniva ignorata, anche da non ignare redazioni economiche, perché Tanzi ed i suoi erano dei vincenti, dei partner da difendere, degli inserzionisti pubblicitari da cocolare; oggi si fa finta di non vedere il reato commesso da tutto il mondo giornalistico, perché si fa finta di credere che questa sia la libertà di cronaca. Contano gli interessi, non la legge. E chi deve vigilare volge lo sguardo altrove.