Che Massimo Ciancimino sia un pataccaro lo scriviamo e documentiamo da tempo, sicché oggi potremmo dirci soddisfatti. Invece le cose prendono una piega inquietante, procedendo verso il rogo della memoria, della cultura e della giustizia. Non mi spaventa quel che accade nelle aule di giustizia, mi atterrisce quel che si muove fuori, spesso a cura di quanti, invece, dovrebbero parlare solo nei tribunali.
I processi, come le indagini che li precedono, si svolgono, o dovrebbero, secondo le regole della procedura. Nulla ha a che vedere con la realtà fin quando non s’arriva ad una verità processuale. Che può essere discussa, anche negata, ma rimane un punto fermo. I processi non si fanno in piazza, il che vale per l’accusa come per la difesa. Noi, invece, li facciamo solo lì, disinteressandoci poi delle sentenze, quasi siano solo esiti burocratici. Ci si accalora nelle piazzate, alimentate da presunti approfondimenti giornalistici, con il nefando contributo degli stessi (procuratori, imputati e accusatori) che dovrebbero essere attori solo del processo vero, quello d’aula. E’ stato così che Ciancimino, figlio di mafioso, narratore di minchionerie galattiche, è divenuto icona dell’antimafia. La colpa non è sua, che così c’è nato, ma di quanti lo hanno assecondato e di chi non l’ha sbugiardato.
Lo incontrai pubblicamente, gli misi sotto al naso le numerose sciocchezze del suo libro, ottenendone, al posto delle risposte, un piagnucolio sulla sua povera vita di figlio d’un tiranno delinquente. Uno fatto di questa stoffa, che invocava il nome del figlioletto di pochi anni per accattivarsi i presenti, come poteva resistere a procuratori scrupolosamente attenti al loro dovere? S’è visto, ma era evidente. In occasione altrettanto pubblica incontrai Antonio Ingroia, cui non si nega certo il diritto di scrivere libri, ma penso che prima di trasformare in letteratura e commenti le inchieste che segue dovrebbe almeno attendere che si concludano e se ne conoscano gli esiti processuali. Gli chiesi cosa intendeva fare dopo che un carabiniere, accusato e assolto, Sergio De Caprio (il capitano Ultimo) aveva detto di ricordare la sua voce, in aula, come quella di Totò Riina. Accusa pesante, da soggetto non sprovveduto. Ingroia oscillò, poi disse: querelerò. Spero lo abbia fatto. Ma prima di tutto spero che qualcuno si sia occupato di quelle parole, valutandone la portata. Certo, il pubblico di quelle occasioni è tendenzialmente dalla parte dei miei interlocutori, nei quali s’incaponisce a riconoscere gli eroi capaci di liberarci dalla mafia. Ma la colpa di ciò è dei tanti intellettuali senza coraggio, dei tanti opinionisti senza opinioni, della cultura senza critica e di una politica ridotta a tifoseria dissennata, che preferiscono esaltare, gonfiare, urlare le nuove verità, anziché pensare e avere il coraggio di parlare. Cercatori d’applauso senza alcunché da far applaudire.
Noi abbiamo dimostrato, dati e date alla mano, che tutta intera la tiritera della trattativa fra Stato e mafia, così com’è stata raccontata (anche da procuratori e loro testimoni) è una bubbola. E abbiamo dimostrato che se si applicano al calendario quei teoremi che si sono voluti far discendere dalle cianciminate e dalle inquisizioni che sparano a tre palle un soldo, ne discende che i conniventi con la mafia erano Scalfaro e Ciampi, non i successori. A quei teoremi non credo, ma sono convinto che si debba riscrivere per intero la storia dell’antimafia, perché il canovaccio ideato dall’unico dotato di livello intellettuale, Luciano Violante, s’è strappato. Anche se qualcuno s’attacca ai brandelli, anche se qualche minore spera di farci carriera, quel tessuto è lacero. E’ ora di tornare a onorare, con l’intelligenza e il coraggio, quegli stessi che, per fare politica con le procure, si vollero sconfiggere: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Lo scontro, feroce e durissimo, fra le procure di Caltanissetta e Palermo, non è il problema, ma la conseguenza di venti anni di bugie e montature. Venti anni che hanno portato i servitori dello Stato ad essere isolati, sconfitti e processati, elevando i disonorati a oracolo di verità. Così non muore solo la giustizia, ma si avvelenano i pozzi del vivere civile. Lo abbiamo visto e scritto, sebbene gran parte dell’Italia che parla (a vanvera) abbia preferito subbissare le voci libere con la faziosità e le bischerate dette da avanzi di galera.