Si passa dal processo breve a quello lungo, quasi sia impossibile imbroccare quello giusto. Immagino i tanti che leggono i titoli dei giornali o ascoltano le notizie in televisione e si domandano se sono loro ad essersi persi qualche passaggio, o il Parlamento, ad essere abitato da dissociati mentali. Vale per la maggioranza, ma anche per l’opposizione, visto che chi si oppone al processo breve si oppone anche a quello lungo. La realtà è triste: sovrabbondano la confusione e le norme inutili, mentre si manca ancora l’obiettivo di riforme organiche e coerenti.
Stiamo al “processo lungo”, come è denominato, in maniera totalmente fuorviante, il provvedimento approvato ieri dal Senato, grazie al voto di fiducia, e che ora va alla Camera. Si tratta di un provvedimento salsiccia, che contiene questioni non omogenee e modifica diversi articoli del codice di procedura penale. Troppa roba, per essere discussa in modo preciso, troppo poca per essere considerata una riforma di portata generale. Le questioni di cui tutti parlano e scrivono sono tre: a. la possibilità di citare numerosi testimoni, allungando i tempi (da qui il nome) del procedimento e conducendolo alla prescrizione; b. l’impossibilità di utilizzare le risultanze di altri processi; c. l’entrata in vigore immediata, anche per i processi in corso. Tutto questo per favorire Silvio Berlusconi e le sue posizioni processuali. Tanto per cambiare.
Nessuno parla della cosa che a me pare più rilevante, e anche più negativa: vogliono togliere il beneficio per gli assassini che rinunciano a citare testimoni e vanno al processo abbreviato. E perché? Questa pretesa di fare i severi sulle questioni astratte è davvero fastidiosa. I tempi della giustizia italiana sono intollerabilmente lunghi, se un imputato, sia anche un assassino, ci aiuta a tagliarli, per sua libera scelta, accedendo al rito abbreviato, merita comunque un premio, equivalente ad un terzo della pena. Siccome, però, Berlusocni non è (ancora) accusato d’omicidio, a nessuno importa un piffero.
Affrontiamo le tre questioni controverse. I testimoni: l’attuale norma prevede che il giudice possa non ammettere testimonianze e prove “manifestamente superflue o irrilevanti”, la nuova lo stabilisce per quelle “manifestamente non pertinenti”. La mia impressione è che si stia pestando l’acqua nel mortaio. Quando si discute la lista dei testimoni il collegio giudicante non conosce ancora gli atti di causa, quindi, normalmente, tende ad ammettere tutto. Quel che si dimostrerà inutile finirà con l’essere dannoso, e questo gli avvocati seri lo sanno. Diverso è il caso di prove, quindi anche testimonianze, sopravvenute: se, ascoltando un testimone, quello riferisce questioni rilevanti che ha appreso da Tizio, allora si può chiamarlo a sua volta. La differenza non è epocale, anche perché a decidere è il giudice.
Quando si fece la legge sulle rogatorie, o quella sulla legittima suspicione, gli stessi che ora urlano dissero che non si sarebbe mai più acquisita una prova all’estero e tutti i collegi giudicanti sarebbero stati ricusati. Noi sostenevamo che a decidere sono i giudici e, quindi, se non è zuppa è pan bagnato e non sarebbe cambiato molto. Chi ha avuto ragione? In questo caso è evidente che la condotta deprecabile non è quella di chi chiama tanti a testimoniare, perché questo è un diritto costituzionale (per la miseria, ma la leggono, ogni tanto, ‘sta disgraziata Costituzione?!), bensì quella di chi mette in atto un vero e proprio ostruzionismo processuale. In altri sistemi si chiama: oltraggio alla corte, e la paga l’avvocato, non l’imputato. Perché non si fa così, come sarebbe più che saggio, anche da noi? Perché la corte è collega di chi accusa. E’ a questo chiodo incivile che s’attacca la corda delle troppe tutele formali, con cui s’impicca la giustizia italiana. Morale: su questo punto non è sbagliata la nuova norma, se non per assoluto deficit d’efficacia e generalità.
La non acquisizione, quale verità dimostrata, delle risultanze di altri processi è una giusta previsione. In un processo dove non sono imputato, ovviamente, non mi sono difeso, allora: perché dovrei essere condannato sulla base di una prova che non ho potuto discutere? Nel processo accusatorio la prova si forma in dibattimento, in quello specifico dibattimento, se la si acquisisce altrove addio processo giusto. Quindi, va bene. Ma se va bene, di grazia, perché sono esclusi alcuni reati (mafia e terrorismo)? Possibile che i signori legislatori non sappiano distinguere un principio da un’aggravante? Se il principio è giusto, e lo è, vale per tutti. E vale anche per Berlusconi. Semmai ci si dovrebbe chiedere che cavolo di sistema è quello in cui un reato a concorso necessario (non ci può essere un corrotto senza un corruttore, e viceversa) può dar luogo a due processi, uno per il corrotto e l’altro per il corruttore. L’illogicità è solare (originata dal fatto che la posizione di uno fu sospesa e per l’altro s’andò a sentenza).
Infine, l’immediata entrata in vigore. E’ un principio del diritto romano. Facevano così quando ancora andavano in giro con il gonnellino e il gladio, ed è per questo che venivano considerati civili. Non barbari. Ciò che è a favore del presunto reo si applica subito, anche perché, in caso contrario, sarebbe come dire che ci si è accorti di un’ingiustizia, ma si decide di sanarla dopo averne commesse qualche altro migliaio.
Giudizio riassuntivo: l’ennesimo mozzicone giusto giocato nel modo sbagliato. L’ennesima occasione persa di aggiustare la giustizia.