Giustizia

Processare senza intercettare

Processare senza intercettare

Prima di trasferirci tutti a vivere nelle mutande altrui, occorrerà trovare una soluzione al dilagare delle intercettazioni telefoniche. C’è, non è complicata e qui di seguito la illustro brevemente, avvertendo che non coincide affatto con il disegno di legge della maggioranza, da due anni ciondolante in Parlamento, troppo concentrato sugli effetti e poco efficace sulla causa.

Ieri Maurizio Belpietro ha usato parole dure e, per far capire quanto detesta la barbarie, ha scritto di sentirsi più dalla parte di Angelo Balducci che di quanti hanno divulgato notizie sulle sue cose più private, del tutto ininfluenti con l’eventuale reato e, comunque, in anticipo di anni su un eventuale processo. Mi associo, pur non unendomi al coro (troppo rischioso). I lettori, però, devono sapere che la situazione è assai più grave e pericolosa di quanto si possa immaginare. La ragione è tecnologica: un tempo, in epoca analogica, intercettare qualcuno significava mettere al lavoro uomini con le cuffie e registratori, il che non solo era complicato, ma tutto quello che non si era ascoltato e registrato era irrimediabilmente perduto; ora è diverso, perché viviamo in epoca digitale, sicché dati, immagini e voce corrono tutti sotto forma numerica, potendosi stoccare in memorie che occupano poco spazio. I nostri sms, per dirne una, sono conservati per anni. Le mail rimangono nei server per tempi indefiniti. Se decido, oggi, d’intercettare qualcuno posso farlo non solo per il presente e per il futuro, ma anche per il passato. Non ci vuole un genio per capire che, in queste condizioni, la mera formalità dell’autorizzazione rilasciata da un giudice dell’indagine preliminare è un paravento formalistico e ridicolo.

E allora? Le esigenze da tutelare sono due, apparentemente inconciliabili: la sicurezza collettiva e la riservatezza privata. I fautori delle intercettazioni dicono: è insensato rinunciare a questo strumento, con il quale possiamo sventare attentati e scoprire bande di trafficanti. Salvo, però, utilizzarlo maniacalmente per sapere chi si accoppia con chi (ancora non c’è la variante del “che”, ma ci arriveremo). I fautori della privacy ribattono: la Costituzione tutela la riservatezza delle comunicazioni, quindi le eccezioni devono esserci solo in casi gravissimi. Giusto, ma inutile, perché il magistrato inquirente giudica gravissimo che Tizio stia corrompendo Caio, per cui registra anche le telefonate con Sempronio e i giornali pubblicano l’ammucchiata.

Nel progetto governativo ci si concentra sulla punizione delle fughe di notizie. Piantiamola con l’ipocrisia: le notizie non fuggono, ai giornali le portano, tenendole per la manina, i magistrati. Si vuol punire i giornalisti? Secondo me andrebbero fustigati, ma non perché pubblicano (come vuole il ddl), bensì perché sono servi dell’accusa, salvo che non siano posseduti dall’accusato. In generale, comunque, un giornalista che non pubblica non è un giornalista. Suggerisco una lettura educativa: i gialli scritti da Gorge Simenon. Il commissario Maigret aveva due avversari: il giudice, che lui viveva come uno smidollato e che, in realtà, non si piegava agli istinti manettari del questurino, e i giornalisti, che si dividevano in quelli che non capivano e quelli che facevano l’inchiesta per i fatti propri. Da noi, invece, ad arrestare è direttamente il magistrato, che poi fa anche la conferenza stampa. Se i testi di diritti risultano ostici, almeno che si leggano i romanzi.

Della cosa si è occupato Luca Ricolfi, suggerendo di limitare il numero delle intercettazioni, affidando la cernita al Consiglio Superiore della Magistratura, e consentendo ai giornali di pubblicare solo una volta giunti al processo (non durante l’indagine), comunque senza riferimenti a chi non è chiamato in giudizio. E’ serio, ma neanche questo funziona, perché il Csm non può sostituirsi alle procure e la pertinenza o meno di riferimenti ad altre persone è, prima della sentenza, un giudizio soggettivo.

Ecco la soluzione che mi sembra più ragionevole: le intercettazioni telefoniche non costituiscono prova autonoma, ma solo strumento d’indagine, pertanto non devono essere depositate in nessun fascicolo processuale, quindi non diventano mai pubbliche. Se arrivano a qualche giornale vuol dire che qualcuno degli inquirenti ha commesso un reato, e si arresta lui, non il giornalista (o tutti e due, così si fanno compagnia). E’ salvaguardata la difesa della sicurezza ed è reso totalmente illegale l’uso pubblico.

Se dico, al telefono, che intendo strangolare un Tale nessuno deve potermi fare niente. Ma gli inquirenti mi hanno ascoltato, mi fanno pedinare e quando metto le mani addosso alla vittima mi arrestano. L’intercettazione sparisce, perché la prova è altra. Se dico che ho messo il malloppo nella tomba di mia nonna nessuno deve arrestarmi, ma vanno al venerato sepolcro e se ci trovano i soldi hanno la prova, così m’ingabbiano. Se, parlando con degli amici, rido del crollo della sterlina e affermo che è giunta l’ora di portare la Repubblica a Londra, talché suggerisco di annegare i reali nel Tamigi, e posto che qualcuno stia ascoltando la telefonata, deducendone che il “tesoruccio” che affibbio al mio maschio interlocutore sia da intendersi quale chiaro sintomo di passione retroallocata, al massimo parte una segnalazione per le autorità di frontiere, perché un gruppo di ubriachi potrebbe essere in arrivo. Da noi, oggi, con questa roba, ci aprono un’inchiesta per regicidio.

Con una simile riforma, in modo semplice, si ripulisce la giustizia, si migliorano le indagini, aumenta la sicurezza di tutti, compresa quella di parlare e anche straparlare in pace, e la si pianta con questo orrendo pettegolume da pervertiti in terza elementare.

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