Giustizia

Processo al processo

Processo al processo

In un mondo in cui tutti leggono e trascrivono le medesime veline, in cui i giornalisti sono più o meno bravi, ma a scrivere tutti la stessa cosa, Lino Jannuzzi appare quasi un fenomeno. Adesso con “Il processo del secolo – Come e perché è stato assolto Andreotti” (Mondadori) ci regala un bel processo al processo. Un dietro le quinte che appare quasi inverosimile a chi si è limitato ad assistere alla commedia che in quel di Palermo è stata inscenata.

E, del resto, in quel processo le cose inverosimili erano numerose. Era inverosimile che il freddo Andreotti avesse scelto Riina come oggetto di sbaciucchiamenti; era inverosimile che giuocasse a nascondino con la scorta; che finisse ospite di latitanti; che girasse in macchina nella speranza di non essere riconosciuto. Ma una volta inscenato il processo; una volta dato per accertato il fatto che Salvo Lima era stato ammazzato per ritorsione contro Andreotti, incapace o volutamente inadempiente alla promessa di aggiustare certi processi; una volta trascinato sul banco degli accusati per mafia un uomo che, inevitabilmente, faceva accomodare accanto a sé un cinquantennio di storia repubblicana; be’ una volta montata la commedia era inverosimile che la si concludesse scoprendo che la procura non aveva in mano nulla che potesse somigliare ad una prova. Ma la Sicilia è terra di realtà inverosimili, è il regno in cui nessuno parla e tutti sanno, è il mondo in cui i morti portano regali ai bambini, ed ancora una volta non ha deluso.

Certo, adesso che Andreotti è stato assolto vi sono alcuni dettagli che vagheranno a lungo, fino a divenire inquietanti: chi ha ucciso Lima e perché? fin qui ci si è limitati a condannare il morto ed i suoi amici, fra i quali, però, si fa fatica a comprendere quelli che lo hanno colpito nel mentre lui, terrorizzato, si nascondeva dicendo “tornano, Madonna Santa, tornano”. Chi ha istruito i pentiti? perché è vero che due coincidenze possono fare un indizio, e, in questo caso, abbiamo numerosi indizi di gente che racconta balle che si somigliano e che appaiono concordate o suggerite: possibile che tutto questo sia opera di una diecina di scannatori semianalfabeti? perché questo gran processo, questo grande atto di coraggio e di determinatezza nella lotta alla mafia non è mai stato neanche pensato da un tipo come Giovanni Falcone, mentre è stato istruito dagli stessi che furono avversari del Falcone vivo? chi ha mancato di coraggio o di lucidità, chi ha peccato di strumentalizzazione politica, chi di connivenza con interessi estranei a quelli di giustizia?

Sono tutte domande che meriterebbero di essere, quanto meno, prese in considerazione, mentre vengono accantonate ed occultate da quello stesso sistema dell’informazione che ha rullato i tamburi e soffiato nella trombetta per attirare l’attenzione sulle gesta di una procura che è stata così platealmente smentita.

A tal proposito: che nessuno dica, per favore, che la giustizia ha trionfato; che nessuno dica che l’assoluzione di Andreotti è la prova della sana e robusta costituzione del sistema giudiziario italiano. Perché è vero l’esatto contrario. Quell’accusa e quel processo hanno cambiato un pezzo della storia d’Italia, nel senso che l’hanno inquinata e corrotta. Chi paga? I ragazzi che oggi frequentano le scuole elementari, quando un giorno andranno all’estero per completare gli studi, si sentiranno ancora chiedere come sia stato possibile che in Italia abbiano governato i mafiosi. Chi paga? La gestione di pentiti mendaci (quindi non pentiti) e del processo in questione ha dilapidato una montagna di quattrini pubblici. Chi paga? L’avere condotto in modo errato (lo dice la sentenza) la lotta alla mafia, l’avere inseguito falsi colpevoli e falsi moventi, ha distolto le forze dalla lotta contro la mafia vera. Chi paga?

Anche queste sono domande che non avranno risposta, sono domande profondamente illegittime e direi provocatorie. Anzi, forse dovrei autodenunciarmi per diffamazione della vera storia d’Italia e dei magistrati giusti, democratici e coraggiosi. Ma il fatto è che la vera storia d’Italia è un cumulo di minchionerie, e la magistratura inquirente protagonista di questa storia sarà pure democratica (può darsi), ma, di certo, non ha mostrato né giustizia né coraggio. Ci sarebbe voluto, ad esempio, il coraggio di dire, ad un certo punto del processo: all’impostazione accusatoria abbiamo creduto, c’era sembrata fondata, ma, adesso, ci accorgiamo di avere sbagliato. Quel coraggio è mancato e, come sostenne un nostro connazionale, a chi non ha coraggio non lo si può certo dare.

In quest’Italia, quindi, la lettura delle pagine jannuzziane sembra qualche cosa d’incredibile. Forse perché sono verosimili.

Giuliano Ferrara, nella prefazione, avverte il lettore del fatto che Jannuzzi è pigro. Vero, verissimo. Se non fosse così avrebbe trovato il tempo e la voglia di rimettere mano agli articoli che aveva già pubblicato, dando al libro una forma diversa, magari una pretesa di maggiore autorevolezza. Ma Lino Jannuzzi ha preferito lasciare intatta la collana d’articoli, una specie di rosario da sgranare recitando la laica preghiera contro l’oppio dei popoli e la morfina degli italiani. Per non perdere tempo e lavorare, oppure perché già sufficientemente autorevoli e chiari. Decidano i lettori come stanno le cose, lettori che, per il solo fatto di essere tali, s’iscrivono all’altra Italia: quella di coloro i quali non la bevono e non sfilano dietro i volenterosi ed entusiasti carnefici del diritto.

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